L’alta finanza rende allo Stato islamico molto più del greggio
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Lo Stato islamico guadagna 300 milioni di dollari l’anno grazie a un investimento da fondo sovrano
La conquista mongola di Baghdad
di Daniele Raineri | 27 Dicembre 2015 Foglio
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Roma. Nibras Kazimi è un esperto di Iraq quotato e sul suo sito spiega che lo Stato islamico ha trovato un modo alternativo di finanziarsi, molto più redditizio anche del contrabbando di greggio, che è considerato (erroneamente) la prima voce del bilancio. Il gruppo jihadista si è inserito nell’asta dei dollari tenuta dalla Banca centrale dell’Iraq, grazie a meccanismi molto opachi e a intermediari, e ricava circa venticinque milioni di dollari al mese – trecento l’anno – di profitto. La spiegazione di Kazimi, che ha fonti nell’intelligence e nelle banche dell’Iraq e che segue le vicende dello Stato islamico fin dalla sua fondazione nove anni fa, è importante perché lascia intravedere una dimensione meno superficiale del gruppo di quella data dai media, diversa dall’immagine tutta barbe e mitra che domina nei video – che non a caso sono fatti circolare su internet – e più vicina a quella di un fondo sovrano, che sono gli investimenti che alcuni governi fanno con le proprie eccedenze in valuta estera.
Lo schema dello Stato islamico sfrutta il commercio di dollari americani regolato dalla Banca centrale dell’Iraq. La banca vende dollari a banche private, che a loro volta vendono la valuta a chi dimostra di avere bisogno di dollari – le banche si avvalgono della collaborazione di molti istituti di cambio sparsi per il peaese e assai poco trasparenti.
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Tutti, Banca centrale e banche irachene, guadagnano grazie alla differenza di cambio che esiste tra il prezzo cui acquistano loro dall’America e il prezzo che fanno ai compratori. Sono soldi sicuri, perché c’è sempre richiesta di dollari. Ora, sembra che la domanda di dollari sia gonfiata a dismisura con richieste false, redatte da alcune compagnie compiacenti che impiegano decine di dipendenti al solo scopo di produrre documenti falsificati. Soltanto il 20 per cento delle richieste, secondo le stime, è reale: il restante ottanta per cento passa tra le mani di chi vuole speculare sulla differenza di prezzo. Lo Stato islamico è riuscito a inserirsi in questo meccanismo, grazie a un investimento iniziale di circa un miliardo di dollari che viene dal bottino fatto dopo la caduta di Mosul, seconda città del paese, nel giugno 2014. Sembra che i soldi siano stati prima portati in Giordania al sicuro, poi fatti rientrare in Iraq e trasferiti a Ramadi, infine investiti nello schema. Considerato il volume di ricchezza trattata, è plausibile che lo Stato islamico disponga di intermediari fidati, come del resto ne dispone nel settore del contrabbando del greggio.
Nota: questo stesso meccanismo speculativo è usato da molti altri investitori, compresi alcuni partiti iracheni, crimine organizzato incluso quello legato al traffico di droga, e alcuni grandi fondi del Golfo persico. Il che vuol dire che c’è poca voglia di interrompere il ciclo dell’arricchimento, perché lo Stato islamico ne beneficia ma è un giocatore marginale rispetto ad altri grandi investitori.
Si capisce che non si tratta di un’operazione banale, ma di uno schema raffinato che presuppone conoscenze finanziarie e facce presentabili. Gli aerei americani il 23 novembre hanno ucciso l’uomo che si è occupato di mettere in piedi l’intera faccenda, “Abu Salah”, membro dell’esecutivo dello Stato islamico – secondo i documenti trovati su un laptop nel giugno 2014, ma il gruppo terrorista è organizzato in modo da assorbire in fretta il trauma delle perdite di leader (anche se il Pentagono sostiene di no, che l’uccisione di Abu Salah rappresenta un danno permanente). L’inchiesta di Kazimi è finalmente un lavoro meno stereotipato sul gruppo di Abu Bakr al Baghdadi. E’ come se ci dicesse: pensate allo Stato islamico come a un fondo sovrano molto liquido con una causa sociale precisa, il terrorismo islamista, e filiali sparse in molti paesi.
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