Al-Chehai: «Aleppo saccheggiata da Isis e Turchia»
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Quattro anni di guerra. Cento aziende devastate. Macchinari rubati. Imprenditori uccisi. Il n.1 della Camera di commercio della città siriana: «Ankara è complice».
Un'immagine della città di Aleppo devastata dalla guerra siriana. © Getty
di Mauro Pompili | 04 Dicembre 2015- da Beirut, lettera43
Aleppo era la seconda città della Siria e la capitale economica del Paese.
Alla Camera di commercio della Provincia prima della guerra esplosa nel 2011 risultavano iscritte più di 80 mila imprese.
Piccole e grandi aziende che facevano di quel territorio il maggiore distretto produttivo del Medio Oriente.
FAES VIVE ANCORA IN CITTÀ. Dopo quattro anni di conflitto e di assedio Faes al-Chehai, presidente della Camera di Commercio e Industria di Aleppo, che vive ancora in città, racconta al telefono cosa è accaduto alla sua e ad altre fabbriche della città.
DOMANDA. Quali sono state le conseguenze della guerra sulla zona industriale di Aleppo?
RISPOSTA. «Devastazione» credo sia il solo termine che si può usare. Nel 2011, a partire dal secondo mese di conflitto, sono iniziate le distruzioni e i saccheggi.
D. Cosa accadde?
R. Appena prendevano il controllo di qualche area i ribelli distribuivano volantini ordinando alle imprese di chiudere e prepararsi alla requisizione.
D. Altrimenti?
R. Sarebbero state bruciate.
D. A chi era rivolta la minaccia?
R. Anche a molti negozi. Conosco almeno 20 industriali che sono stati uccisi perché si sono rifiutati di chiudere.
D. Che risultati ha avuto questa devastazione?
R. Alla fine del 2011 i ribelli avevano già distrutto più di 100 fabbriche.
D. Un disastro.
R. A questi si deve aggiungere l’effetto di quattro anni di bombardamenti e cannoneggiamenti che non hanno risparmiato neppure gli ospedali e le scuole.
D. Anche la sua impresa ha subito danni?
R. La mia fabbrica era a Sheikh Najjar, la più grande area industriale della città. I ribelli l’hanno requisita nel 2011.
D. E poi cosa successe?
R. Mi hanno detto che apparteneva alla ‘rivoluzione’ e che non avevo diritto a reclamarla.
D. Se l'aspettava?
R. Credevo che la mia fabbrica, dove producevo olio d’oliva, fosse nelle mani del “Free Syrian Army” (l’Esercito libero siriano, ndr), invece era una sede dello Stato islamico.
D. Che fine fece l'azienda?
R. Quando sono tornato nel mio stabilimento l’ho trovata svuotata di tutti i macchinari.
D. Da cosa capì che c'era la mano del Califfato?
R. Sulle pareti erano dipinte bandiere dell’Isis, c'erano ancora i vestiti dei jihadisti e i loro volantini.
D. Come reagì?
R. Quando ho scoperto che nella zona non c’erano più scuole ho deciso di mettere a disposizione gratuitamente la mia fabbrica vuota per fare lezione. Almeno quelle mura sarebbero state utili.
D. Ha accusato le autorità turche di essere dietro al saccheggio delle fabbriche di Aleppo. Ne è ancora sicuro?
R. Sì, e ho molte prove.
D. Quali?
R. Ho presentato due denunce contro il governo turco ai tribunali di Strasburgo e dell’Aja. Ho raccolto testimonianze, confessioni e filmati.
D. Di che numeri stiamo parlando?
R. Alla Camera dell’Industria e del Commercio in questi anni sono arrivate più di 5 mila denunce per il furto di attrezzature.
D. Com'era l'iter?
R. Diversi industriali mi hanno raccontato che i ribelli erano arrivati nelle loro fabbriche accompagnati da esperti turchi.
D. Perché erano presenti?
R. I miliziani non sono in grado di selezionare quali linee di produzione rubare e non hanno idea di come si smonta un macchinario industriale senza danneggiarlo.
D. A quello pensavano i turchi.
R. Sceglievano il loro bottino e lo inviavano a Gaziantep o ad Adana.
D. Il governo turco sapeva?
R. La refurtiva entrava in Turchia, sicuramente con il consenso delle autorità e della polizia di quel Paese.
D. Non potevano eludere i controlli?
R. Hanno di certo attraversato qualche valico di frontiera. Impossibile fare strade alternative con camion che trasportano macchinari lunghi anche più di 20 metri.
D. I turchi dunque hanno le loro responsabilità.
R. Hanno trasformato le aziende di Aleppo in un deserto di macerie.
D. Che ne sarà di Aleppo quando tutto questo finirà?
R. Difficile immaginare, ma la città non sarà più la stessa e non solo per le distruzioni.
D. Per cos'altro?
R. Molti di quelli che sono andati o che lo stanno facendo ora non pensano di tornare. Stanno vendendo le loro case, soprattutto i cristiani che vivevano nella vecchia città.
D. Chi è rimasto ad Aleppo?
R. Solo 10 mila armeni. Erano più di 200 mila prima della guerra.
D. E gli altri?
R. Ho incontrato patriarchi e sacerdoti di tutte le comunità, tutti si sentono attaccati dagli islamisti che vogliono cacciarli dalla città, dal Paese.
D. Lei cosa ne pensa?
R. Sono musulmano sunnita, ma vorrei ricordare agli integralisti che i cristiani di Aleppo non sono ospiti.
D. In che senso?
R. Sono gli abitanti originali della città. Erano qui prima dei musulmani e spero che possano tornare presto.
D. Come vede il suo Paese nei prossimi anni?
R. La Siria non sarà mai più la stessa. È stata distrutta.
D. Cinque anni fa com'era?
R. Nel 2010 il mio Paese non aveva nessun debito estero, oggi è in ginocchio.
D. Gli antichi fasti torneranno mai?
R. Forse 10 anni dopo la fine della guerra saremo di nuovo un Paese forte.
D. E politicamente?
R. Per superare le divisioni e curare le nostre ferite ci vorranno generazioni e generazioni.
D. La storia insegna.
R. In Libano 25 anni dopo la fine della guerra civile le ferite sono ancora aperte. E le divisioni governano il Paese.
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