Saltano i nervi, saltano i confini
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Siria, Iraq, Libia. Grecia, Ucraina, Europa, Turchia. Le fragilità della Nato di fronte a un nuovo ordine in medio oriente. Come e perché le cartine geografiche e diplomatiche sono state ridisegnate da religioni e mercati
di Mario Sechi | 04 Dicembre 2015 ore 06:18 Foglio
Roma. Interno notte. Palazzo di Westminster, Camera dei Comuni. Qui Winston Churchill promise “sangue, fatica, lacrime e sudore” per arrivare in un luogo chiamato libertà. Qui Margaret Thatcher fondò un altro Regno Unito e ordinò alla Royal Navy di far rotta verso le isole Falkland, un avamposto dell’Impero alla fine del mondo. Qui Tony Blair diede forma a una nuova politica estera britannica dopo “la rottura delle nazioni”. Qui David Cameron l’altro ieri ha (ri)messo gli inglesi dalla parte giusta e lasciato, quasi solitario, Jeremy Corbyn dalla parte sbagliata. Qui il laburista Hilary Benn, in un discorso memorabile, ha (ri)messo il Labour in occidente e cancellato le vecchie mappe: “L’antico confine tra Iraq e Siria non esiste più, i combattenti di Daesh (Isis, ndr) vanno avanti e indietro da questo confine fittizio”. Sono saltati i confini. Non solo in quel vasto spazio del medio oriente. Le linee di Yalta sono sempre più fievoli alla nostra vista, la spartizione della Storia è consumata da una forza naturale che Robert D. Kaplan ha felicemente chiamato in suo libro “La rivincita della geografia”. La geografia è un destino, i confini naturali, etnici, tribali, di spazio e tempo, stanno spazzando via le righe disegnate sulla mappa dalla politica del Novecento. Il 1989, accolto da Francis Fukuyama come “la fine della Storia”, in realtà mise in moto un processo di distruzione (creativa?) del vecchio ordine mondiale che si dispiega di fronte a noi. Voltarsi indietro aiuta però a cogliere la fattura e la frattura del presente. Saliamo sulla macchina del tempo dell’ambasciatore Sergio Romano: “Sono confini che risalgono alla Prima e alla Seconda guerra mondiale. E naturalmente quei confini riflettevano i rapporti di forza di allora”. Questa è la fattura. E la frattura? “Dopo la fine della Guerra fredda due stati si sono disintegrati: uno grande per la penisola balcanica, vale a dire la Yugoslavia, e l’altro ancora più grande per l’intera Europa, l’Unione sovietica. All’interno di questi stati vi erano dei sottostati, le repubbliche federate jugoslave, le repubbliche federate dell’Unione sovietica, ciascuna delle quali aveva confini che erano più o meno nominali, in gran parte puramente amministrativi”.
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Eccoli i confini del Novecento, prima una cortina di ferro, poi un muro di fango. “In Unione sovietica ci fu un tentativo intelligente di Eltsin: sostituire l’Unione sovietica con una comunità degli stati indipendenti – ricorda Romano al Foglio – il cui obiettivo era proprio quello di evitare dispute su confini che potevano diventare discutibili. Per un certo periodo le cose andarono relativamente bene e si evitò una disputa tra Ucraina e Russia perché Eltsin e il presidente ucraino di allora furono saggi, c’era il rischio di finire con una guerra. Per questo Eltsin non rivendicò la Crimea e neppure Sebastopoli, base navale della Russia. Eltsin accettò di fare una cosa che noi non abbiamo capito ma fu molto coraggiosa: affittare Sebastopoli. All’interno del Blocco sovietico – Polonia, Cecoslovacchia, etc. – i confini non erano discutibili, perché legati a un rapporto con un paese egemone, ma poi tutto questo scomparve. I confini non sono sacrosanti. Ogni volta che scoppia una crisi tra i protagonisti di una particolare area, il confine salta”. Salta anche la Storia. Ma le lancette dell’orologio dei forum di cooperazione politica e militare sono rimaste indietro. La Nato dopo il crollo del Muro di Berlino è stata reinventata su basi friabili, una “lotta al terrorismo” che con Bush fu “war on terror” e con Obama una “red line” che non s’è mai accesa. L’articolo 5 del Trattato, quello che obbliga i paesi membri della Nato ad assistere un alleato attaccato all’interno dei propri confini, scattò per la prima volta dopo l’11 settembre 2001. Fu così che partì il Risiko della campagna militare in Afghanistan e poi quella in Iraq nel 2003. Ma allora alla Casa Bianca c’era George W. Bush e oggi, con Obama, dopo Parigi quel dispositivo è rimasto un colpo inceppato nella canna del fucile. Bataclan? No, Parigi in Siria faccia pure, dialoghi con Mosca, ma niente Nato. Prudenti con le armi, gli Stati Uniti si sono invece mossi con grande velocità e destrezza per allargare i confini dell’Alleanza contro la Russia. A Washington l’antico nemico è il nuovo nemico. Chiedere al Montenegro – stato di cui gli americani ignorano l’esistenza sulla mappa – di entrare nel club della Nato fa parte di questa strategia. Dove i confini sono piccoli e incerti, arriva la Nato. Sono i disegni di Washington, di sicuro non quelli di Berlino, almeno a giudicare la mossa di Frank-Walter Steinmeier, ministro degli Esteri della Germania (e principale punto di riferimento di Federica Mogherini, rappresentante della politica estera dell’Unione) che ha chiesto alla Nato di riaprire i colloqui con Mosca perché la Russia “ha dimostrato di voler agire in modo costruttivo nella campagna siriana”. Big surprise. Quali sono i confini della Nato? Il Montenegro? Serve a questo la Nato? Siamo ancora a bordo della macchina del tempo dell’ambasciatore Romano: “Dopo la fine della Guerra fredda, per due anni, il presidente era Clinton, non sapevano che cosa fare della Nato, a un certo punto convinsero il presidente degli Stati Uniti che la Nato poteva ancora essere utile: era l’alleanza che legittimava una presenza militare americana in Europa e con l’allargarsi delle adesioni fu presentata come una Onu Atlantica. Una organizzazione delle democrazie che condividono gli stessi valori, gli stessi princìpi”. Valori universali. Sì, ma la Russia poteva stare a guardare? Romano è chiaro: “Se qualcuno vuole entrare perché si sente minacciato dalla Russia – una minaccia più immaginata che reale – e si accetta l’adesione, allora la Nato acquista implicitamente una connotazione anti russa”. Conseguenze? “Si metta un momento al posto di Mosca: lei vede questa cosa crescere, un mostro di Loch Ness, cresce, si espande, domani la Georgia e dopodomani l’Ucraina… be’ lei che cosa fa? Sta con le mani in mano?”. No. Mi riprendo la Crimea senza sparare un colpo.
Come fece un altro ambasciatore, la fonte di ispirazione della diplomazia russa, il faro della politica estera di Putin e Lavrov, Alexander Mikhailovich Gorchakov, cancelliere dell’impero russo dal 1863 al 1883 che scrisse alle grandi potenze europee: lo Zar ha deciso, la Crimea è nostra. E torna a casa. Confini. Salti. La storia si ripete.
Così in Siria e Iraq il grande gioco è senza frontiere. Questa è l’intuizione di Putin. Cinico? Sicuro. Spregiudicato? Altrettanto. Puoi fidarti? Francia e Germania giurano di sì. Gli inglesi sono là con i Tornado. What else, Obama? Schema: le alleanze variabili, il mio amico è il nemico del mio nemico. Niente confini. Lo ha detto alla Camera dei Comuni, Hilary Benn: dov’è il confine in Siria e Iraq? Non c’è più. Dov’è il confine in Libia? Basta leggere lo straordinario reportage di Daniele Raineri dalla Libia – pubblicato dal Foglio ieri – per mettere un punto e a capo alla discussione e immaginare carovane di milizie armate attraversare il deserto passando dal Ciad, dal Sudan, dal Niger, dall’Algeria, dall’Egitto, dalla Tunisia. Chi ha il monopolio della forza – insieme alla terra, il pilastro dello stato – in Libia, in Iraq, in Siria? Tutti e nessuno. Le forze armate regolari irachene mentre scriviamo tentano la riconquista di Ramadi, città in mano alle milizie di Isis, a soli 110 chilometri dalla capitale. Ramadi, Falluja, Baghdad, questa è la striscia di sabbia e sangue che conduce all’inizio o alla fine dell’Iraq. Dov’è il confine? A sud, forse, a Bassora, dove c’è il bastione del mare. In questa terra di mezzo, l’uso della violenza non è più regolato dal diritto, è incontrollabile, perché sono saltati gli argini e il sangue scorre a fiotti. Dove cominciano e dove finiscono i confini dell’Europa? L’Unione ha elargito ad Ankara 3 miliardi di euro per difendere i propri confini dalla pressione migratoria originata dalla guerra in Siria e in Iraq. Quelli della Turchia sono i confini del Vecchio continente? E’ saggio concedere a Erdogan il potere di aprire e chiudere la porta dell’Europa perché i confini sono diventati intermittenti e la libera circolazione degli uomini e delle merci – Schengen – un problema se la Grecia (porta per il viaggio nei Balcani verso il nord Europa) non sa difendere i suoi confini? E come è conciliabile con la guerra allo Stato islamico il fatto che la Nato sia costretta a difendere paesi come la Turchia che non considerano una priorità la guerra contro lo Stato islamico? L’ambasciatore Romano scende dalla macchina del tempo. Siamo nel presente: “La Grecia è un problema, non fa il suo dovere. Noi invece non siamo più sul banco degli accusati. Certo, si dà un potere alla Turchia, non c’è dubbio, ma Ankara ha anche molte vulnerabilità: la politica estera di Erdogan è totalmente fallita. E a questo punto Erdogan ha molto più bisogno dell’Europa di quanto credesse qualche mese fa e negli anni precedenti. Quello tra Turchia e Europa oggi è un rapporto relativamente paritario, nel senso che ciascuno dei due ha bisogno dell’altro e ha delle carte in mano che può giocare. Noi dovremmo far di più, intanto voi turchi fate la vostra parte se desiderate avere una prospettiva europea”. Allora è sistemato tutto? Fidarsi è bene, diffidare è meglio. “Non scriverei sistemato”, chiosa Romano. La storia continua. E’ senza confini.
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