Ci si può fidare dei “70 mila” combattenti “moderati” in Siria?
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A Londra questa sera è atteso il voto ai Comuni. Il premier David Cameron dice che c’è un esercito a terra su cui investire. Analisi e dubbi
di Paola Peduzzi | 02 Dicembre 2015 ore 06:18
Milano. Questa sera, dopo il dibattito parlamentare richiesto dai laburisti, la Camera dei Comuni inglese deciderà se sostenere la proposta del governo conservatore di David Cameron di allargare alla Siria le operazioni militari britanniche contro lo Stato islamico. La conta ai Comuni è cominciata da quando il leader laburista, Jeremy Corbyn, ha deciso lunedì di dare libertà di voto ai suoi compagni di partito, e negli uffici dei conservatori a Westminster ci sono le lavagne piene di nomi di parlamentari, frecce rosse e frecce blu, per capire chi voterà a favore, chi contro, se si vince, e di quanto. Il vento pare favorevole al governo, che fa sapere che i bombardamenti potrebbero iniziare già entro la settimana, ma si sa che nel Regno Unito il partito anti guerra è forte, è trasversale, e si nutre della “lezione irachena”, lo spettro che condiziona il dibattito sulla guerra.
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Serve una grande alleanza contro lo Stato islamico, scrive Boris Johnson L’ampliamento delle operazioni aeree, richiesto dal governo inglese sulla base di equazioni semplici – stiamo già bombardando in Iraq, abbiamo promesso solidarietà alla Francia, tutto quel che indebolisce lo Stato islamico garantisce una maggiore sicurezza anche per il Regno Unito – è il primo passo per un impegno maggiore nella guerra allo Stato islamico, come dimostra anche l’annuncio del capo del Pentagono, Ash Carter. Gli Stati Uniti manderanno altre forze speciali, oltre a quelle già stabilite, “in grado di fare raid, liberare ostaggi, raccogliere intelligence e catturare leader dello Stato islamico”. E’ così che si crea “un circolo virtuoso di intelligence migliore che produce più target, più raid e più momentum”.
Accusato di pericolosi tentennamenti da parte dell’establishment della Difesa, il premier Cameron sta pensando a una strategia complessiva, e coordinata all’interno della Nato, per combattere in modo efficace la minaccia jihadista. Gli strike aerei potrebbero non essere sufficienti, e paradossalmente questa tesi è sostenuta anche da chi vuole votare contro la proposta governativa ai Comuni: “Soltanto le truppe di terra possono distruggere lo Stato islamico, ma il piano per formarle, con il contributo curdo e delle popolazioni sunnite, non ha credibilità”, sintetizza l’Economist nell’elenco delle motivazioni addotte dai “contrari” all’allargamento delle operazioni aeree in Siria. Dopo gli attacchi di Parigi, sui media inglesi sono aumentati gli interventi a favore di un coinvolgimento di terra: il Financial Times ne ha messi in fila parecchi, dando voce in particolare agli esperti militari, come l’ex capitano della Raf Afzal Ashraf (che durante la guerra in Iraq era consulente per il controterrorismo nel quartier generale della forza internazionale a Baghdad): “La campagna aerea ha i suoi limiti. Ma pure prendere una città alla volta non serve per distruggere lo Stato islamico. Bisogna colpire Ramadi, Tikrit e Mosul, ma anche la Siria, simultaneamente. E’ un’operazione enorme”, per la quale non basterebbero nemmeno le 20 mila truppe che, da questa e dall’altra parte dell’oceano Atlantico, molti interventisti richiedono. “Se siamo già adesso in una fase di contenimento – ha detto sempre al Ft Harleen Gambhir dell’Institute for the Study of War – non abbiamo fatto un gran lavoro”. Ci vuole di più, come ha scritto sul Telegraph Hamish de Bretton-Gordon, ex ufficiale dell’Esercito ed esperto di armi chimiche che fa da consulente ad alcune ong siriane: “Se gli eserciti della regione non dovessero avere successo entro sei mesi, dobbiamo essere pronti a impegnarci con carri armati e soldati per combattere assieme a russi, americani e altri, per colpire in modo definitivo lo Stato islamico nel giro di poche settimane”.
L’ingresso del Regno Unito nell’operazione di bombardamento in Siria potrebbe essere il primo passo per un coinvolgimento maggiore, ma le linee guida di una nuova fase non sono ancora state delineate. I “boots on the ground” occidentali sono stati per il momento esclusi dai leader coinvolti nella coalizione a guida americana (alla quale partecipano 65 paesi): come dicono gli esperti militari, per creare un’operazione con buone possibilità di successo, ci vorrebbero almeno 50 mila soldati, un impegno enorme (che il presidente Barack Obama ormai tratta con ironia, prendendolo come un riferimento lunare, quasi una barzelletta). Soprattutto: per avere successo, ci vorrebbe una strategia che al momento non esiste in nessuna cancelleria occidentale. Chi chiede di rimuovere il rais siriano Bashar el Assad non sa chi mettere al suo posto, chi vuole spianare Raqqa, “capitale” siriana dello Stato islamico, non sa chi può poi gestire la città, la sua popolazione, la ricostruzione. Lo stesso vale per gli altri fronti di guerra, i bastioni del Califfato, con un risultato politico deprimente: ci si divide sul piano militare, e si preferisce non discutere di quel che accadrà nel momento in cui lo Stato islamico sarà – se sarà – contenuto. Se già è complicato garantire una collaborazione di base tra la coalizione a guida americana e quella russa, sul “dopo” le divergenze sono inconciliabili.
La spiegazione dell’esperto
Esclusa l’opzione “boots on the ground” occidentali, resta quella dei “boots on the ground” locali. Il contributo vitale a terra garantito dai peshmerga curdi è noto e riconosciuto, più controverso è invece il ruolo del cosiddetto “esercito sunnita”, ribattezzato, con rassicurante ottimismo, “forze arabe democratiche”. Nel Regno Unito non si discute d’altro da quando, giovedì scorso, il premier Cameron ha detto ai Comuni, proponendo ai parlamentari di allargare la missione britannica alla Siria, che ci sono “circa 70 mila combattenti dell’opposizione siriana che non appartengono a gruppi estremisti” che possono aiutare la coalizione a guida americana a combattere lo Stato islamico. Il numero viene da un report interno del Joint Intelligence Committee, l’organo che si occupa di intelligence e consiglia il governo britannico in materia di sicurezza, e da alcuni diplomatici inglesi in medio oriente che si occupano da anni di studiare l’opposizione siriana. Naturalmente un numero così grande – un esercito di 70 mila combattenti! – è stato accolto con sorpresa e scetticismo, ed è il motivo per cui i corbyniani e tutti coloro che vogliono evitare le operazioni aeree in Siria dicono: non c’è credibilità.
Charles Lister sostiene che il numero non è affatto campato per aria – “about right”, scrive – e sullo Spectator ha spiegato perché. Lister è visiting fellow al Brookings Doha Center ed è l’autore di un libro appena pubblicato, “The Syrian Jihad: Al-Qaeda, the Islamic State and the Evolution of an Insurgency”, frutto di un programma faccia-a-faccia con più di cento leader di gruppi di opposizione armata in Siria: si può dire che conosce i 70 mila da molto vicino. Prima di tutto, dice Lister, bisogna intendersi sulla parola “moderato”, visto che il suo significato è andato modificandosi nel tempo, e con l’inerzia, si è inevitabilmente allargato: “Nella definizione – scrive Lister – rientrano i gruppi che si oppongono allo Stato islamico e i gruppi che il governo inglese, assieme ai suoi partner, vuole o necessita nel processo politico in Siria”. Per lo più si tratta di fazioni armate che la Cia ha già “vetted”, esaminato, e dichiarato sufficientemente moderate da fornire loro assistenza militare letale. Poi ci sono altri gruppi che sono considerati dai siriani, scrive Lister, “membri mainstream della rivoluzione, alcuni moderatamente islamici, e, cosa cruciale, ritenuti fortemente radicati nelle società locali”. In tutto queste forze – che sono di base soprattutto ad Aleppo e Homs, ma anche a Idlib, a Deraa e a Damasco – contano circa 65 mila combattenti: i rappresentanti risultano invitati alla conferenza sulla Siria che l’Arabia Saudita (che fa parte della coalizione internazionale contro lo Stato islamico) sta organizzando per metà dicembre. A questi si aggiungono, dice Lister, “25-30 altre fazioni, che non saranno invitate dall’Arabia Saudita, ma che ricadono nella definizione di ‘moderati’, e contano circa 10 mila combattenti”. Questo è “l’esercito” su cui si può provare a fare affidamento, i nostri “boots on the ground”, oltre ai ben più fidati curdi. Lister li racconta così: “Sono esplicitamente nazionalisti nella loro visione strategica; sono locali in termini di membership; sperano che la Siria torni al suo status multisettario e di stato di diritto. Sono per lo più concentrati a combattere il regime di Assad, perché per loro rappresenta una priorità, in termini di autoprotezione, per la difesa dei civili e naturalmente per perseguire l’obiettivo ultimo della loro rivoluzione”.
Tra queste fazioni, ci sono due “supergruppi”, i più conosciuti, che contano circa 27.500 uomini: Jaish al Islam e Ahrar al Sham. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti hanno evitato qualsiasi contatto con il più islamista dei due, Ahrar al Sham, ma entrambi compaiono nella lista degli invitati dall’Arabia Saudita (Qatar e Turchia hanno cercato anche di portarli all’incontro multilaterale di Vienna, il 14 novembre scorso, il giorno dopo gli attentati a Parigi). “Questi due gruppi e anche altri più piccoli – dice Lister – non sono per nulla alleati naturali dell’occidente, non c’è alcun dubbio. Ma si oppongono violentemente allo Stato islamico, e sono riusciti in passato a contenerne le avanzate” in alcune parti della Siria. Mike Giglio, corrispondente di Buzzfeed da Instanbul ora ad al Hawl in Siria, ha raccolto le voci dei combattenti che si stanno muovendo verso Raqqa e che dicono che gli strike aerei da soli non consentono di battere lo Stato islamico. “La guerra è difficile e dolorosa”, dice Ahmed Sarhat, un soldato di trentasei anni che prima del conflitto faceva l’agricoltore, “ma dobbiamo combattere. Il nemico qui non è soltanto il nemico di questo paese, è il nemico di tutti i paesi. Quando realizzi che sono contro l’umanità, devi per forza combatterli”.
Lo spettro afghano e l’assenza di alternative
Il problema è chiaro: se questi gruppi vengono coinvolti, faranno parte del processo politico assieme agli altri, se saranno esclusi possono diventare “potenti spoiler” della transizione. I detrattori di un eventuale coinvolgimento ricordano quel che accadde in Afghanistan negli anni Ottanta con il sostegno dato ai mujaheddin, trasformatisi nei “Frankenstein della Cia”. Tutti gli altri, per quanto spaventati e convinti che fosse necessario muoversi ben prima di adesso, e con più determinazione, pensano che non siano date molte alternative: “Se gli Stati Uniti non riescono a mobilitare alleati sunniti, non riusciranno mai a riprendere il territorio allo Stato islamico. Questo fatto elementare è il tallone d’Achille della politica di Barack Obama”, ha scritto l’Hudson Institute, think tank reaganiano, in un lungo e interessante paper intitolato “Come distruggere lo Stato islamico (e come no)”. E’ la rivisitazione della dottrina Petraeus, il risveglio delle popolazioni sunnite contro gli estremisti, soltanto che ora non c’è il “surge” dei soldati ad accompagnare la strategia “cuori e menti”, e non è una differenza da poco
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