LA SCELTA DI OBAMA (E L’ITALIA?)
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Assediata e coinvolta da un ordine internazionale che sta andando in frantumi, l’Italia si trova da ieri in un pericoloso triangolo strategico
di Franco Venturini Il Corriere della Sera il 16/10/15 Redazione AD
Assediata e coinvolta da un ordine internazionale che sta andando in frantumi, l’Italia si trova da ieri in un pericoloso triangolo strategico. Ieri, appunto, Barack Obama ha ceduto alle pressioni dei suoi generali e ha prolungato la presenza militare americana in Afghanistan (9.800 uomini) fino a «quasi tutto» il 2016.
Nel gennaio 2017, quando Obama dovrà lasciarela Casa Bianca, le forze Usa saranno ancora composte da 5.500 soldati. Questa decisione può fare la differenza, ha spiegato Obama, ma è difficile dargli ragione. A meno che le infiltrazioni dell’Isis smettano di moltiplicarsi e i talebani decidano di negoziare sul serio. Poi ci sono, accanto agli Usa, anche forze alleate, e tra queste reparti italiani che oggi ammontano a poco meno di ottocento uomini in maggioranza addestratori. Cosa faranno gli italiani?
La decisione del nostro governo, già presa, è di farli rientrare entro la fine del gennaio 2016. Ma le decisioni possono cambiare. Il segretario alla Difesa americano Ashton Carter, in occasione della recente visita a Roma e subito dopo al vertice ministeriale della Nato, ha anticipato gli orientamenti di Obamae si è compiaciuto di aver ottenuto promesse di restare in Afghanistan da parte di tutti gli alleati (promessa che peraltro soltanto la Germania ha reso pubblica).
Oggi i Palazzi romani dicono di essere impegnati a «valutare» la richiesta americana, anche se tutti danno per scontato un sì a Washington. Curiosa coincidenza, perché l’Italia sta ancora «valutando» anche l’impiego in ruoli di bombardamento dei suoi quattro Tornado dislocati in Iraq.
E non è difficile notare che la contrarietà ripetutamente espressa da Matteo Renzi nei confronti del ricorso a bombardamenti si riferisce sempre alla Siria e non al quadro strategico molto più chiaro dell’Iraq.
Che il presidente del Consiglio non veda di buon occhio un nuovo impiego dei Tornado, anticipato dal Corriere il 6 ottobre scorso, è cosa risaputa. Oltretutto è in arrivo il Giubileo, e colpire l’Isis accresce il rischio di attentati.
Ma un impegno con gli americani era stato preso, o almeno così ritenevano gli Usa. Forse la permanenza in Afghanistan può costituire una insperata carta di scambio? Forse si può continuare a essere buoni alleati e anche protagonisti (un po’ marginali, in verità) anche sostituendo un anno in più in Afghanistan alle bombe certo non decisive di quattro Tornado?
Diciamo, per usare un linguaggio ortodosso, che la cosa è oggetto di valutazione. E poco importa che il sottoscritto consideri comunque irrecuperabile per l’Occidente la situazione in Afghanistan, mentre colpire i massacratori e torturatori jihadisti dell’Isis, anche simbolicamente, e meglio se in nostra piena autonomia, sarebbe nostro dovere e nostro interesse. Al triangolo manca un lato, che si chiama Libia.
Non è dato ancora sapere se le parti in causa ratificheranno le proposte del mediatore dell’Onu Bernardino Léon per un governo di concordia nazionale, e se si passerà poi a una risoluzione del Palazzo di Vetro (o a una decisione della Ue) forse con autorizzazione all’uso della forza.
In effetti anche nella migliore delle ipotesi la stabilizzazione della Libia (e dunque anche il controllo dei flussi migratori) è inconcepibile senza un certo uso della forza, in aggiunta a sanzioni e a strette creditizie ancora non operanti.
Ed è anche vero che se il progetto Léon andrà in porto l’Italia avrà fatto moltissimo per sostenerlo, più di chiunque altro. Ma l’insistenza italiana per vedersi riconoscere un «ruolo guida» dopo l’eventuale raggiungimento dell’accordo (ma non della pace sul campo, questo è sicuro) lascia perplessi.
A cosa sta pensando il nostro governo? A missioni di assistenza nei vari settori compreso quello dell’addestramento militare, ad aiuti economici da usare come carota in contrasto con il bastone delle sanzioni, a una cabina di regia su operazioni soft in parte già in corso, come la distruzione dei barconi utilizzati per i migranti? Se è così, bene.
Ma se qualcuno avesse in mente un peace enforcing che sarebbe rischiosissimo e richiederebbe l’utilizzo di decine di migliaia di uomini per essere efficace, se si volessero occupare le coste, se si dovesse affrontare la testa di ponte creata dall’Isis (che ieri a Sirte ha imposto il niqab alle studentesse), se insomma per riportare l’ordine in Libia si dovesse fare la guerra a terra, avrebbero senso le nostre ripetute richieste? Forse il triangolo andrebbe ripensato, o almeno chiarito
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