“Sì al dialogo con Putin”. Arriva la svolta di Obama sulla guerra in Siria
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Annuncio di Kerry: Washington pronta a trattare. Elicotteri e jet russi a Latakia. Attesa per il piano entro nove giorni
di Daniele Raineri | 19 Settembre 2015 ore 06:27 Foglio
Roma. Ieri il segretario di stato americano John Kerry ha detto che l’America è pronta a parlare con la Russia della Siria, con un dialogo che è stato definito “military to military”, quindi tra le Forze armate dei due paesi. Con una sola dichiarazione Kerry annuncia due cambiamenti di linea politica americana in medio oriente, cambiamenti che sono forzati dalla presenza di truppe russe nell’ovest della Siria, grazie a una escalation cominciata a inizio settembre, e anche dal fallimento della strategia americana (ieri il New York Times l’ha definito “un fallimento abissale secondo ogni metro di misura”).
“Penso che il dialogo comincerà a breve – dice Kerry – e aiuterà a scegliere tra alcune opzioni, mentre consideriamo quali saranno i nostri prossimi passi in Siria”. Kerry sostiene che non cambiano i due obiettivi fondamentali dell’Amministrazione Obama in Siria: sconfitta dello Stato islamico e soluzione politica al conflitto. “Stiamo capendo come trovare un terreno comune” con la Russia, ha detto Kerry appena atterrato a Londra per un incontro con il ministro degli Esteri degli Emirati Arabi Uniti, Abdullah bin Zayed (che è anche figlio dell’emiro) prima di partire per la Germania.
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Kerry apre alla possibilità che il presidente siriano Bashar el Assad resti al suo posto a breve termine, senza specificare alcuna scadenza, e si tratta di un cambio di linea rispetto alla posizione della Casa Bianca, che negli ultimi quattro anni era rimasta sempre e comunque ferma su “Assad should step down”, Assad deve mollare il potere. Ora Kerry concede che: “A political settlement cannot be achieved with a long-term presence of Assad”, un accordo politico [per riportare la pace in Siria o quantomeno per stabilizzare il paese, ndr] non può essere raggiunto con una presenza a lungo termine di Assad. A breve termine, quindi, non è più un argomento su cui l’Amministrazione agli sgoccioli intende spendere energie. E’ un’apertura verso il presidente russo Vladimir Putin, che questa settimana ha detto con chiarezza di essere dalla parte di Assad e di non prendere in considerazione un suo abbandono dell’incarico. Proprio per soccorrere Assad in crisi militare, negli ultimi due mesi Putin si è coordinato con il governo dell’Iran. Ieri il governo russo ha dichiarato che, se Assad lo richiederà, è pronto a impiegare truppe russe in combattimento in Siria (anche se per ora molti osservatori puntano su una esposizione ridotta dei soldati). Secondo il Pentagono, quattro jet da combattimento SU-27 e quattro elicotteri russi da combattimento sono arrivati a Latakia.
L’Amministrazione Obama aveva provato a bloccare la spedizione militare russa in Siria. Il 5 settembre Kerry aveva chiamato il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, per avvisarlo che l’ammassare forze in Siria potrebbe provocare una escalation del conflitto e portare anche a un confronto militare tra i due paesi. La telefonata era stata ripetuta, invano. Il governo americano ha poi tentato di bloccare i voli degli aerei militari russi che portano uomini e materiale bellico verso l’ovest della Siria, con scarso successo però. La Bulgaria ha acconsentito a chiudere il suo spazio aereo ai voli russi, ma l’Iraq – che pure è legato all’Amministrazione Obama da un’alleanza forzata di guerra – li ha fatti passare con una scelta di inerzia deliberata. La rotta di quegli aerei è diventata un segnale politico: Russia, Iran, Iraq e Siria. Con i commenti fatti ieri da Kerry, scrive il New York Times, la posizione dell’Amministrazione Obama sulle iniziative dei russi è passata da una “opposizione vociante” al tentativo di gestire quello che sta succedendo.
E’ chiaro che in Siria non va più bene la postura militare un po’ farsesca condivisa finora dalla Coalizione internazionale e dall’aviazione siriana, definita di “uncoordinated deconfliction”, un arzigogolo militare che sta per “facciamo finta di ignorarci a vicenda, anche se è chiaro che un minimo di coordinamento c’è, poiché non interferiamo nelle rispettive operazioni aeree”. Il ministro Lavrov ha detto la settimana scorsa che ora con i russi la deconfliction non basta più, “altrimenti si rischiano incidenti non intenzionali”.
La trattativa military to military tra russi e americani a proposito della situazione in Siria avverrà per forza di cose entro dieci giorni, perché Putin intende annunciare un piano di pace all’Assemblea generale delle Nazioni Unite il prossimo 28 settembre, con un discorso che si preannuncia di interesse estremo. La prossima settimana vola a Mosca il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che vuole parlare con il presidente russo perché il soccorso militare in favore di Assad sta spalancando le porte della Siria alle Guardie rivoluzionarie dell’Iran, che sono votate a un preciso obiettivo strategico: la fine di Israele. Gli aerei russi offrono un ombrello di protezione agli iraniani, c’è materia di discussione.
Il cambio di rotta dell’Amministrazione Obama arriva al culmine di una settimana imbarazzante per la cosiddetta strategia americana in Siria. Un generale del Pentagono, Lloyd Austin, ha detto in audizione davanti al Congresso che il programma americano per formare una milizia siriana anti Stato islamico è costato 500 milioni di dollari e ha prodotto “quattro, forse cinque combattenti ora in Siria” (il Comando centrale ha precisato ieri che ora sono nove: no comment). Il senatore John McCain ha detto di non avere mai assistito a una audizione così desolante in trent’anni di carriera politica.
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