La difesa degli inglesi, "disumani numero uno" sull'immigrazione,
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contro le false promesse di solidarietà. David Cameron, premier inglese, parla chiaro sulla retorica di questi giorni: “Non penso che la risposta al problema possa essere data semplicemente accogliendo più rifugiati”. Bisogna prendere iniziative oltreconfine
di Redazione | 03 Settembre 2015 ore 14:25 Foglio
I treni a Budapest sono stati assaltati, l’Unione europea ha detto che saranno date sanzioni a chi rifiuta quote di profughi, Matteo Renzi rilancia le regole europee per l’asilo, e intanto continua a circolare, insistente e tragica, la foto del bambino siriano morto sulla costa turca, si racconta chi era, che arrivava – fuggiva – da Kobane, e i giornali titolano sulla foto che cambia e cambierà le coscienze europee, dopo i fiumi di retorica stampati questa mattina nelle edicole (e ancora ne verranno).
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Sotto accusa sono soprattutto gli inglesi, i disumani numero uno, perché sono quelli che parlano di frontiere chiuse, che dicono che l’accoglienza non è in discussione, è che bisogna imparare a trattare la situazione non come un’emergenza ma come un fenomeno da gestire con una visione, che non si tratta soltanto più di una crisi di migranti, ma una crisi di rifugiati. David Cameron, premier inglese, cerca di dirlo chiaro: “Non penso che la risposta al problema possa essere data semplicemente accogliendo più rifugiati”. Bisogna prendere iniziative oltreconfine, quello vicinissimo a Calais, e quello lontano, laddove la crisi, la fuga, parte.
Gli dicono che è disumano: lo fanno i suoi avversari laburisti a caccia di una propria identità visto che sono in mezzo alle primarie, e lo fanno gli europei che degli inglesi parlano – non da oggi, ma ora di più – malissimo. Il Monde titola: “Una foto per aprire gli occhi”, l’Eliseo convoca una riunione straordinaria. Nella corsa a essere umanitari, gli inglesi cercano di non farsi travolgere dalla commozione e di evitare che si torni a litigare sulle quote ma ci sia una operazione collettiva – alle frontiere e poi dentro ai paesi – in grado di creare un’accoglienza che non finisca per essere, come è stata finora, una promessa di benessere che non si può mantenere.
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