Una legge à la Piketty ha fatto espatriare i ricchi dalla Francia
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La spasmodica caccia al ricco di Hollande ha portato alla fuga degli imprenditori
di Mauro Zanon | 08 Agosto 2015 ore 06:18
Parigi. La maxi gabella al 75 per cento che il presidente francese François Hollande aveva inizialmente previsto per tutti coloro che guadagnano più di un milione di euro (nel marzo del 2013; tre mesi dopo, con la bocciatura della Corte costituzionale che l’aveva bollata come “confiscatoria”, decise di infliggerla solo alle imprese), è stata seppellita definitivamente il primo gennaio di quest’anno, ma i suoi effetti luttuosi si vedono soltanto oggi. La spasmodica caccia al ricco, che ha contraddistinto il primo biennio del mandato di Hollande portando nelle casse dello stato meno della metà dei quattrocento milioni di euro previsti (comunque noccioline, a fronte dei settanta miliardi che l’imposta sul reddito garantisce), si è scontrata contro il muro della realtà. Sempre più imprenditori, industriali, investitori, startupper, giovani ricchi e facoltosi pensionati, decidono di spostare il loro domicilio fiscale al di fuori dei confini francesi, seguendo l’esempio di Gérard Depardieu e Bernard Arnault.
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Da un anno, a Bercy, siede un liberale disinibito come Emmanuel Macron, e non un colbertista che vorrebbe tassare e nazionalizzare a più non posso come l’ex ministro dell’Economia Arnaud Montebourg, ma i danni di quella sciagurata iniziativa, suggerita dall’economista Thomas Piketty e dai suoi lavori sulla riduzione delle diseguaglianze, sono stati evidenziati ieri da un articolo pubblicato dal quotidiano economico Echos, secondo cui solo nel 2013 le fughe per motivi fiscali dalla République guidata dai socialisti sono aumentate del 40 per cento. Altro che “fantasme”, come l’allora ministro del Budget, Bernard Cazeneuve, aveva liquidato lo spauracchio dell’“esilio fiscale di massa dei contribuenti francesi”. In cinque anni, secondo i dati raccolti da Echos, gli esiliati verso lidi fiscali meno soffocanti di quello francese si sono moltiplicati per tre. E tra questi, non ci sono solo i “milionari” che Hollande voleva spremere a tutti i costi per vendersi come presidente “vicino al popolo” (poi Valérie ci ha detto cosa pensa veramente del popolo e tutto è andato a farsi benedire), ma anche gli appartenenti alla parte alta della classe media, che hanno redditi annui ben al di sotto del milione di euro.
Il numero di francesi che ha scelto di fare i bagagli ha iniziato a decollare nel 2011 con l’adozione delle politiche d’austerità, ma è nel 2013, quando l’imposta al 75 per cento per le imprese entra in vigore e Montebourg e le sue ricette dirigiste imperano a Bercy, che si registra un’impennata considerevole. Fra i contribuenti il cui reddito è superiore ai centomila euro, gli esiliati sono 3.477, pari a un più 40 per cento rispetto al 2012. Se si dà un’occhiata a coloro i quali vantano redditi superiori ai trecentomila euro lo stesso anno, la tendenza al fuggi-fuggi è ancora più pronunciata: il fisco ha infatti constatato nel 2013 ben 659 espatriati, ossia un aumento del 46 per cento rispetto all’anno precedente. 714, infine, è il numero di contribuenti soggetti all’Imposta di solidarietà sul patrimonio (Isf) che hanno scelto di lasciare l’Esagono nel 2013, pari al 15 per cento in più se si osservano i dati del 2012 (620 partenze). Allora, gli avvocati fiscalisti già lanciavano moniti sulla nocività delle politiche fiscali adottate dai socialisti, fiancheggiati dalla destra che denunciava “l’esilio delle forze vive”, mentre la gauche parlava di inevitabile “allineamento nel quadro della globalizzazione”. Jean-Philippe Delsol, avvocato fiscalista e autore del libro “Pourquoi je vais quitter la France”, aveva subito messo in guardia dalle ripercussioni nefaste che l’introduzione della supertassa al 75 per cento avrebbe portato con sé: “Ha reso i miei clienti più nervosi all’idea di investire il loro tempo e i loro soldi in Francia, rafforzando la sfiducia verso un sistema molto complesso”. Nonostante Macron e la svolta liberale da lui innescata, la fiducia “non è qualcosa che si può riacquistare da un giorno all’altro”