Iran, America e Israele. Come è nato il patto al ribasso
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Dal regime change all’accordo con gli ayatollah. Cosa siamo stati disposti a perdere per questo deal?
di Paola Peduzzi | 14 Luglio 2015 ore 20:04
Milano. Dodici anni di colloqui, prima segretissimi, poi alla luce del sole, orgogliosi anche, con le foto alla finestra, i ministri sulle terrazze che ogni tanto regalano qualche dichiarazione per condire giornate altrimenti passate a studiare il linguaggio dei corpi. Grandi illusioni, grandi delusioni, molti bluff, molte promesse, soprattutto un’attesa estenuante, senza saper più che cosa augurarci davvero, accontentandoci del fatto che contenere una Bomba è pur sempre un obiettivo, al ribasso, ma un obiettivo. Infine l’accordo sul programma nucleare di Teheran è arrivato, inevitabilmente “storico” per quanto ancora confuso, “il meglio che siamo riusciti a fare”, dice il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif (tutti devono poter annunciare di aver vinto, persino il siriano Assad che non avrebbe nemmeno diritto di parola si è infilato nel giro di congratulazioni), e a guardare indietro sembra che questo “meglio” abbia avuto un prezzo parecchio alto, e chissà quanto c’è ancora da pagare. Che cosa siamo stati disposti a perdere, nel frattempo?
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C’è sempre stata una distinzione, nel trattare con la Repubblica islamica, che è la stessa per tutti i regimi, a partire da quello sovietico: ci sono i leader e ci sono i popoli. La dottrina del regime change, che ha animato alcuni governi occidentali tra gli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, puntava a salvare i popoli ribaltando i loro governanti. Quando nel 2002 l’Iran fu inserito dall’allora presidente americano, George W. Bush, nell’asse del male, assieme all’Iraq e alla Corea del nord, l’obiettivo era quello di fermare la leadership islamista degli ayatollah, sponsor del terrorismo internazionale, lavorando attraverso il “soft power” per la creazione di una leadership alternativa che rappresentasse i cittadini dell’Iran desiderosi di apertura, di mondo, di democrazia (c’era anche la versione “hard power”, a volte è stata anzi molto presente, soprattutto quando il bluff iraniano è diventato beffa aperta, con le immagini satellitari dei siti nucleari militari all’opera). Tra la guerra in Iraq e il realismo che già nel secondo mandato di Bush aveva conquistato almeno il dipartimento di stato, il regime change si è annacquato, perché nessuno, nemmeno i sostenitori più tenaci del cambio di regime, riusciva a intravvedere e formare una leadership alternativa agli ayatollah, e perché la dottrina dell’esportazione della democrazia era diventata impronunciabile.
La repressione dell’Onda verde nell’estate del 2009, quella enorme manifestazione di piazza contro la rielezione dell’allora presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad finita nel sangue, con il regime che dava di terroristi ai manifestanti e i bassiji in motocicletta che sparavano ad altezza uomo, ha marcato un radicale cambio di strategia: non più regime change, ma contenimento degli ayatollah, con un dialogo sempre più diretto. Barack Obama, fresco di un discorso a mani tese al Cairo, per molti giorni non reagì a quanto stava accadendo nelle strade di Teheran: come avremmo poi capito negli anni a seguire, il presidente americano contava sul fatto che, detta brutalmente, se la sarebbero cavata da soli. Cosa che accadde, il regime se la cavò alla grande, e il popolo iraniano no, come era scritto nei rapporti di forza, ma fu anche chiaro a molti commentatori che la strategia della Casa Bianca era quella di arrivare a un “grande accordo” con Teheran che prevedesse la rinuncia ai programmi nucleari militari, in cambio del diritto di dotarsi di tecnologia nucleare a scopo civile. Se c’era da sacrificare un po’ di popolo, poteva pure andare bene, siamo stati disposti a perdere pezzetti di diritti umani, di valori occidentali e di difesa di Israele anche per molto meno.
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