L’Altra Europa con la Troika. Poveri ma austeri, gli anti Tsipras dell’est non piacciono agli intellò
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Che la posizione tedesca fosse rigida lo sapevamo, sì. Quello che forse mi ha sorpreso è di vedere quanto ampio fosse lo schieramento di paesi che condividevano quella linea
Il premier slovacco Robert Fico (foto LaPresse
di Luciano Capone | 15 Luglio 2015 ore 06:18
Milano. “Che la posizione tedesca fosse rigida lo sapevamo, sì. Quello che forse mi ha sorpreso è di vedere quanto ampio fosse lo schieramento di paesi che condividevano quella linea. Alla fine solo noi, i francesi e la piccola Cipro eravamo per un compromesso. Questo forse non lo si è capito bene”. Intervistato dal Sole 24 Ore, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha riportato il quadro delle reali posizioni dei paesi dell’Eurozona, diverso dal racconto di un continente dominato dalla Germania di Merkel. La Grecia e l’Europa, pur con tutto il suo deficit democratico, non paiono vittime di un diktat tedesco (sul suo blog l’ex ministro Yanis Varoufakis parla di “colpo di stato”), ma di una posizione politica condivisa dalla stragrande maggioranza dei paesi dell’Eurozona. Non è realistica la narrazione di un’Europa divisa tra gli stati ricchi del nord capitanati dalla Germania (Olanda, Lussemburgo, Austria, Finlandia) contrapposti a quelli indebitati del sud, perché contro le richieste della Grecia c’erano anche i membri dell’ex club dei Pigs (Portogallo, Irlanda e Spagna). E non è sufficiente neanche la spiegazione di un eccessivo rigore nei confronti della Grecia per difendere i governi conservatori di Portogallo e Spagna dall’ascesa dei partiti populisti à la Podemos alle prossime elezioni. I paesi che in realtà hanno mantenuto fino alla fine (e ancora adesso) l’atteggiamento più rigido nei confronti di Atene non sono quelli ricchi e/o conservatori, ma sono quelli dell’est, più poveri della Grecia e spesso di sinistra: Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia e Slovenia.
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Il più duro di tutti è stato il premier slovacco Robert Fico, di formazione comunista come Tsipras, che già a febbraio era stato il primo a lanciare l’idea di un referendum, ma per bocciare qualsiasi ipotesi di taglio del debito alla Grecia deciso a Bruxelles: “Spiegare alla gente della povera Slovacchia che dobbiamo dare soldi alla Grecia per i loro stipendi e pensioni? Impossibile”. E in effetti, nonostante i tagli subiti, la pensione media in Grecia è di 833 euro al mese, più del doppio che in Slovacchia dove è di 408 euro, in un paese che ora è in crescita ma che è uscita da una crisi con alti tassi di disoccupazione: “Se la Slovacchia è riuscita a fare le riforme anche la Grecia deve essere in grado di farle, da parte nostra non c’è spazio per la compassione”, ha sentenziato il socialdemocratico Fico. A dargli man forte è il suo ministro delle Finanze, Peter Kazimir, che per primo dopo l’Oxi del referendum greco aveva subito aperto la porta della Grexit e che ieri ha tuìttato: “Se il compromesso raggiunto è considerato duro e pesante, è solo l’esito sfortunato della ‘Primavera di Syriza’”. Sulla stessa lunghezza d’onda della Slovacchia c’è la Slovenia, dove il governo di centrosinistra di Miro Cerar sta attuando misure di austerity, liberalizzazioni e privatizzazioni per rientrare dal deficit e non ha intenzione di sussidiare la Grecia se il governo non mostra l’intenzione di intraprendere il sentiero delle riforme. Durante il vertice di Riga dello scorso aprile è stato proprio il ministro delle Finanze sloveno Mramor, stanco dei discorsi generici di Varoufakis, il primo a suggerire che la Grecia avesse bisogno di un piano B (leggi Grexit). Insomma, l’idea del vicecancelliere tedesco, il socialdemocratico Sigmar Gabriel, secondo cui non possono essere i lavoratori e le famiglie tedesche a dover pagare le irrealizzabili promesse elettorali di Tsipras, non è popolare solo in Germania, ma anche e soprattutto in quei paesi in cui i cittadini hanno pensioni e stipendi più bassi che in Grecia. Il caso più evidente è quello delle repubbliche baltiche, Estonia, Lettonia e Lituania, ultime entrate nell’euro e tra i paesi più poveri del continente con uno stipendio medio tra il 50 e l’80 per cento di quello greco. “Non venite a dirci che avete fatto di più in Europa. No, avete fatto troppo poco, troppo lentamente e meno dell’Estonia”, ha detto Jürgen Ligi che da ministro delle Finanze estone ha avuto a che fare con la tremenda recessione del 2008 dopo la crisi finanziaria e lo scoppio della bolla immobiliare. In due anni l’Estonia ha perso circa il 20 per cento del pil e si è ripresa dopo una cura lacrime e sangue: taglio degli stipendi pubblici, innalzamento dell’età pensionabile, tagli al welfare, liberalizzazione del mercato del lavoro e aumento dell’Iva.
Per la Lettonia è stato peggio, in due anni il pil è crollato del 24 per cento, e la terapia è stata ancora più drastica di quella estone. Ora i baltici crescono a ritmo sostenuto, hanno i conti in ordine, un debito pubblico basso (in Estonia è il 10 per cento del pil, in Grecia il 180) e dopo anni di sacrifici si oppongono a questa solidarietà secondo cui i più poveri dovrebbero aiutare i più ricchi per aver fatto quelle politiche insostenibili che i più poveri hanno evitato di fare. “Noi la crisi dei più ricchi non la paghiamo”, sembrano dire. E le loro ragioni sono talmente difficili da contestare che quasi non compaiono nel dibattito pubblico. Non si vedono intellettuali pronti a difendere le ragioni dei poveri europei dell’est. Ma d’altronde non c’erano neppure quando quei popoli erano schiacciati dal dominio dell’Unione sovietica, figurarsi ora che difendono le ragioni del “paradigma neoliberista”.
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