Cina a rischio bolla finanziaria: crolla la Borsa
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Pechino ha scoraggiato i risparmi. Incanalando le risorse sui mercati finanziari. Che dopo il boom hanno bruciato 3 mila mld. Il governo interviene. Ma è tardi.
(© Ansa) Il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, e il premier Li Keqiang.
di Francesco Pacifico | 07 Luglio 2015 Lettera43
La via al comunismo finanziario di Pechino si è rivelato un disastro. Con 3 mila miliardi di dollari bruciati nelle ultime settimane - mentre l’Europa ne perdeva 1 miliardo sull’onda della Grexit - che hanno cancellato i risparmi dei cinesi.
Intanto la popolazione diventa sempre più povera e scontenta, come il loro Paese che ha dimenticato gli anni nei quali si cresceva a due cifre.
Fitch ha stimato che il Pil in Cina aumenterà soltanto del 6,8% quest’anno, del 6,5 nel 2016 e al 6 nel 2017: il tasso più basso da 20 anni a questa parte.
LA GUERRA PER LA SALVAGUARDIA DEL PARTITO.
Secondo il South Morning quello che sta vivendo il Dragone non è altro che la guerra finale per «la salvaguardia del partito comunista».
Iniziata da quando i nuovi vertici del Paese (il presidente Xi Jinping e Li Keqiang) hanno esasperato il dettato dei loro due predecessori (Hu Jintao e Wen Jiabao) assertori del «mantenimento totale della stabilità».
E si sono resi conto che per realizzare questo progetto non restava che la strada dell’isolamento.
LE MISURE PER FRENARE L'INFLAZIONE.
Prima hanno continuato le purghe nel partito, colpendo le ali più aperte agli stranieri (come il protomaiosta Bo Xilai) o provando a limitare il potere d’interdizione del mandarino - Zhou Xiaochuan, presidente della People’s Bank - che più di altri ha portato soldi cinesi in Occidente.
Quindi hanno frenato la macchina produttiva cinese, nella speranza di rallentare l’inflazione e abbassare i prezzi per spingere i loro concittadini a spendere, a creare una domanda interna e a rifinanziare un’industria alimentata contro il surplus delle esportazioni. Ma questo processo sta avendo, per ora, soltanto un risultato: portare il Paese verso l’implosione sociale ed economica.
CONTI DEPOSITO POCO CONVENIENTI.
In quest’ottica c’è una bomba posta sotto la Borsa di Shanghai, che per qualcuno è già scoppiata. Come detto, da anni le autorità cinesi stanno provando a spingere la popolazione a spendere i loro eccezionali risparmi (si calcola almeno il 50% del Pil). Inutilmente.
Poi le cose sono cambiate quando il governo ha ribassato oltre il dovuto i tassi d'interesse, rendendo poco fruttifero tenere i propri soldi fermi su un conto di deposito.
Questo, più di una serie di articoli della stampa governativa sulle magnificenze borsistiche che qualcuno ha letto come una garanzia statale su quel tipo di investimento, ha permesso alle banche di utilizzare tutta la raccolta per comprare azioni in proprio oppure per finanziare i grandi fondi. Risultato? Al giugno scorso i listini cinesi avevano visto una crescita negli ultimi otto mesi del 150%.
Investitori istituzionali in fuga: i piccoli borsini restano col cerino in mano
Tuttavia, come avviene quando la misura è colma, gli investitori istituzionali legati a realtà statali hanno venduto in tempo. Mentre i piccoli borsini sono rimasti con il cerino in mano e con titoli che valgono un terzo rispetto a quando li avevano acquistati. Ed è scoppiato il panico.
Il governo è intervenuto tardi. Prima ha fatto finta di non vedere che la massa di acquisti in Borsa era legata ad acquisti a leva, utili soltanto a remunerare le società di intermediazione. Poi soltanto quando i listini sono crollati e gli speculatori scappati con le plusvalenze, ha iniziato ad abbassare le riserve obbligatorie per le banche, per evitare il rifinanziamento della bolla.
Sabato scorso poi ha imposto a 21 maggiori società di brokeraggio - le stesse alle quali garantito di tagliare i costi di intermediazione di agosto - di creare un fondo da 19 miliardi di euro per ricoprire gli investimenti negli Etf e congelato le Ipo. Così le Borse hanno continuato a crollare, se si fa eccezione per un leggero rimbalzo in apertura di settimana.
UN SISTEMA FINANZIARIO DISTORTO.
Quanto sta avvenendo finisce per minare un sistema già instabile di suo. Nei giorni scorsi la Banca Mondiale ha chiesto a Pechino «di fare riforme per sistemare il suo sistema finanziario distorto», dove gli incentivi sono distribuiti ai soliti amici, le scarse strutture di governance sono leggere e vige la prepotenza di uno Stato, che controllando il 95% degli asset finisce per assorbire anche le risorse destinate ai prestiti per le piccole e medie imprese private.
E la cosa spaventa non poco visto che, da un lato, il governo sperava di utilizzare la Borsa per finanziare le grandi imprese, e dall’altro si è scoperto - come ha scritto il Wall Street Journal - che «i promotori immobiliari, i governi locali e le compagnie di Stato sono tutti egualmente sovraesposti».
AVANTI CON LA POLITICA RESTRITTIVA.
Inutile dire che un Paese normale avrebbe fatto tesoro del malcontento e cambiato strategia. Invece i vertici cinesi hanno continuato nel portare avanti la loro politica restrittiva, all’insegna della paranoia dell’accerchiamento.
Lo scorso primo luglio, e proprio in nome dell’imperativo della stabilità, è stata approvata la nuova legge sulla sicurezza nazionale.
In estrema sintesi il governo si dà tutti poteri per «per proteggere la propria sovranità» sia sul territorio, con una stretta nelle norme di polizia, sia in Rete, censurando ancora di più le comunicazioni via internet.
VERSO UNA NUOVA RIVOLUZIONE CULTURALE.
Le agenzia di stampa spiegano che il Comitato permanente dell'Assemblea del Popolo vuole tutelare il Paese contro «le cattive influenze culturali, i gruppi perniciosi e le attività criminali travestite da religione, oltre che alle interferenze delle potenze straniere».
In pratica ci sono i prodromi per una nuova rivoluzione culturale cinese, visto che interviene e sanziona nei campi della difesa, la finanza, la scienza, la tecnologia, la cultura e la religione. Il tutto sempre nella difesa della centralità del partito, mentre il Paese freme.
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