La Cina è lambita dalla "stagnazione secolare" e si tuffa nella finanza
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Anche in oriente si investe sempre di meno in attività produttive. L'economia frena ma la Borsa festeggia (e c'è chi ipoteca la casa per puntare forte).
di Ugo Bertone | 13 Aprile 2015 ore 16:55 Foglio
A prima vista l’economia cinese non è affatto vicina. Al contrario, appare un'anomalia rispetto al resto del pianeta, per giunta afflitta da un’evidente schizofrenia. I dati dell’export di marzo segnalano un tonfo inatteso, in pieno contrasto con le previsioni che davano per scontato una crescita dopo il Capodanno. Al contrario, il made in China accusa un calo del 15 per cento mentre l’import si riduce del 12 per cento. La Cina, insomma, vende di meno e compra di meno: il surplus commerciale si riduce così dai 60 miliardi di dollari abbondanti di febbraio a poco più di 3,5 miliardi. Una frenata temporanea?
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Non la pensa così la Banca Mondiale che ha rivisto al ribasso le stime di crescita del Far East, dal 6,9 al 6,7 per cento. La Cina dovrebbe attestarsi sul 7 per cento, l’obiettivo dei vertici di Pechino che già tiene conto di una sensibile frenata dell’economia che fino a due anni fa saliva a tassi a due cifre. Ma sono in molti a pensare, visto il brusco stop di ieri e le tensioni sul mercato immobiliare in caduta libera nonostante gli incentivi fiscali e gli stimoli garantiti ai mutui, che i conti andranno presto rivisti all’ingiù. Ma questa cornice ad alto rischio non turba per niente la corsa delle Borse del Dragone. Proprio ieri l’Hong Kong Stock Exchange è diventato il primo mercato finanziario del pianeta, con una capitalizzazione di 44 miliardi di dollari, ben superiore a Chicago, Wall Street o la City. Intanto, sui recinti elettronici della Borsa i volumi scambiati in azioni e derivati hanno superato i valori di Francoforte, Londra e Parigi messe assieme. A comprare sono solo i cinesi della madre patria, invogliati dalle quotazioni che, dopo la folle galoppata dei mesi scorsi, oggi sono assai più a buon mercato dei listini domestici. Ma anche le Borse di Shanghai e Shenzhen, che hanno alle spalle guadagni superiori al 70 per cento dall’autunno scorso, hanno registrato nuovi rialzi. Con la benedizione delle autorità, a giudicare dal titolo con cui il quotidiano del partito di Guangzhou ha salutato il via libera di Pechino agli acquisto dei fondi di investimento sulla Borsa dell’ex colonia britannica (“Buy! Buy now Hong Kong shares!”) e ha approvato la scelta del signor Li Shengnan, 33 anni, che, spiega in una lettera, ha deciso di ipotecare l’appartamento per investire in Borsa “come hanno fatto i miei amici”.
Tanto entusiasmo non vacilla di fronte alle nuvole che si addensano sui prezzi delle case o sui consumi di lusso in picchiata. Anzi, come accade ormai da anni all’Ovest, le notizie negative sul fronte dell’economia alimentano la speranza dei mercati finanziari in nuovi aiuti monetari da parte delle banche centrali. E qui la Cina smette di essere un’anomalia per entrare, a pieno titolo, nel girone della “stagnazione secolare” così come l’ha descritta Lawrence Summers, consigliere economico di Bill Clinton, critico sugli effetti del Quantitative easing: il denaro abbondante, in assenza di condizioni che ricreino la domanda del sistema, finisce con il favorire solo le fasce sociali che operano su azioni, obbligazioni o possono permettersi speculazioni immobiliari ad ampio raggio.
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Oltre che giustificare i timori del Fondo monetario internazionale: anche in oriente si investe sempre di meno in attività produttive, privilegiando semmai lo shopping in occidente (vedasi Pirelli e non solo). Un po’ come negli Stati Uniti, ove le società quotate si accingono a restituire ai soci, sotto forma di cedole o buy back, più di mille miliardi di dollari sui bilanci 2014. Ma tanta generosità andrà a scapito di nuovi investimenti, accusa il Financial Times : le corporations Usa non vedono ragione per aumentare la capacità produttiva. E lo stesso fanno i giapponesi, nonostante il denaro a prezzo sempre più modesto e gli incentivi dell’Abenomics ad investire in patria. Così come i tedeschi, che si accingono a celebrare i Bund a dieci anni a tasso zero. O anche sotto. Peccato che il denaro gratis (i con una piccola mancia( di qui al 2025 non sia sufficiente a rianimare gli spiriti animali del capitalismo in letargo.