“I terroristi sono degli esempi di perfetta integrazione”
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C’è uno stereotipo secondo cui i giovani europei che partono per la Siria siano vittime di una società che non li accetta e che non ha offerto loro opportunità. Questo non è supportato da prove empiriche”.
di Giulio Meotti | 07 Aprile 2015 ore 18:47
Combattenti dello Stato islamico in Siria
Roma. “C’è uno stereotipo secondo cui i giovani europei che partono per la Siria siano vittime di una società che non li accetta e che non ha offerto loro opportunità. Questo non è supportato da prove empiriche”. L’integrazione non come antidoto, ma come fermento che facilita il terrorismo. E’ la tesi di un gruppo di accademici olandesi che fanno capo a Marion van San e affiliati all’Università Erasmo di Rotterdam. “Un altro stereotipo è che la radicalizzazione derivi dall’integrazione fallita. La ricerca suggerisce invece il cosiddetto paradosso dell’integrazione come terreno fertile per la radicalizzazione”. Si abbattono così molti dei miti che dominano oggi il dibattito su terrorismo e democrazia. “Oserei dire che più i giovani sono integrati, maggiore è la probabilità è che si radicalizzino”, prosegue la studiosa olandese. “Spesso i giovani radicalizzati erano molto occidentali prima della loro conversione; bevevano alcol e usavano droghe leggere. In molti casi hanno finito gli studi, avevano un lavoro e amici provenienti da contesti etnici misti”. Dunque erano perfetti modelli di integrazione. Come Mohammed Bouyeri, l’assassino nel 2004 di Theo van Gogh. Un secchione. Beveva birra, andava in discoteca e fumava spinelli come tanti altri giovani. Nelle ore libere, “Mo” lavorava come volontario nel centro sociale del quartiere.
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Verso l’atomica dei rivoluzionari religiosi La ricerca olandese non è l’unica del genere. Uno studio della Queen Mary University dimostra che i soggetti a maggior rischio radicalizzazione sono i giovani delle famiglie abbienti che parlano inglese anche a casa. Dounia Bouzar, direttrice di un centro francese che si occupa di radicalismo religioso, ha studiato i casi di 160 famiglie i cui figli sono partiti per il jihad. Due terzi facevano parte della middle class francese. Il 23 per cento del totale dei combattenti francesi sono addirittura convertiti all’islam. E’ il mistero che spinge i giovani di Lunel, una pittoresca cittadina francese che ha la più alta percentuale procapite di jihadisti in Europa, ad abbracciare un credo di morte come quello dello Stato islamico. Un fenomeno che vale per i giovani di Fredrikstad, l’ordinata e pulita cittadina norvegese dalle case basse e di legno da cui sono partiti molti volontari della guerra santa, quanto per Abdirahim Abdullahi, la mente della strage di 148 studenti cristiani all’università di Garissa in Kenya. Laureato, Abdullahi lavorava in una banca, indossava abiti costosi e amava leggere (il suo libro preferito era “Il mercante di Venezia”). Un figlio dell’alta borghesia kenyota.
Il 2 settembre 1977, il poeta Jean Genet distinse sul Monde fra la “brutalità” della Repubblica Federale tedesca e la “violenza positiva” della Rote Armee Fraktion, tessenso l’elogio di quella piccola borghesia europea che voleva, come disse il bardo francese, piantare una lancia “nella carne troppo grassa della Germania”. Olivier Roy ha paragonato l’islamismo e il terrorismo di estrema sinistra, ma con un’avvertenza: “Il radicalismo islamico dispone di una base sociale che mancava ai marxisti: la popolazione musulmana sradicata”. La nostra famosa zona grigia è molto più estesa. E’ l’immenso Londonistan.