Steele ha fatto un dossier-patacca su Trump, ma per l’Fbi era credibile
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Fbi sotto accusa. Gli scandali concentrici del bureau, dalle indagini di Comey su Hillary al dossieraggio su The Donald
di Mattia Ferraresi 14 Gennaio 2017 alle 06:00 Foglio
New York. Giovedì il dipartimento della Giustizia americano ha annunciato un’inchiesta sul direttore dell’Fbi, James Comey, che durante la campagna elettorale ha gestito in modo irrituale la famosa indagine sulle email di Hillary Clinton. A luglio Comey aveva convocato a sorpresa una conferenza stampa per spiegare che dalle indagini del bureau non emergevano gli elementi per un’inchiesta della magistratura sulle email, anche se la candidata alla Casa Bianca era stata “estremamente incauta” nel maneggiare informazioni sensibili con un sistema di account e server privati. In ottobre, undici giorni prima delle elezioni, Comey ha informato i membri del Congresso che nuove email legate al caso ma scoperte nell’ambito di un’altra indagine avrebbero potuto comportare la riapertura dell’inchiesta.
Con un colpo di scena da serie tv, era venuto fuori che le nuove informazioni erano in un computer di Huma Abedin, che lo condivideva con il marito Anthony Weiner, finito sotto inchiesta per rapporti con ragazze minorenni dopo l’ennesimo caso di sexting. Tre giorni prima delle elezioni, Comey ha infine comunicato che non c’erano nuovi elementi penalmente rilevanti. Si è molto discusso sulle motivazioni di Comey, sulla decisione di rendere pubblica un’indagine in corso (il direttore ha giustificato la scelta con l’importanza delle informazioni per il popolo americano) e sugli effetti che il tortuoso percorso giudiziario mai sfociato in un processo ha avuto sull’esito elettorale.
Il team di Hillary è convinto che le manovre inconsulte di Comey abbiano fatto deragliare la campagna: “Ci sono molte ragioni per cui un’elezione come questa non ha successo, ma la nostra analisi è che la lettera di Comey, che sollevava dubbi infondati e assurdi, ha fermato il nostro ‘momentum’”, ha detto la candidata nella sua prima uscita pubblica dopo la sconfitta. L’indagine interna nasce dalle rimostranze di chi sospetta una politicizzazione del bureau, che ha rilasciato notizie fuorvianti con un tempismo che sembra pensato per danneggiare. I lavori sono guidati dall’ispettore generale, Michael Horowitz, descritto da Comey come “professionale e indipendente”: “Spero che sarà in grado di rendere pubbliche le sue conclusioni e le osservazioni, perché tutti trarranno beneficio da un’accurata valutazione”, ha detto il direttore dell’Fbi.
Il mondo dei Clinton ha espresso la sua amara soddisfazione attraverso l’ex portavoce di Hillary, Brian Fallon: “Il provvedimento è molto incoraggiante e atteso, vista la drastica deviazione di Comey dal protocollo del dipartimento di Giustizia. Un’indagine di questo genere è assolutamente necessaria per ricostruire la reputazione dell’Fbi”.
Il presidente eletto Donald Trump ha commentato la notizia con la solita compostezza: “Di cosa si lamentano gli uomini della Clinton a proposito dell’inchiesta dell’Fbi? Sulla base delle informazioni che avevano lei non avrebbe dovuto nemmeno avere il permesso di correre”. Hillary, ha scritto Trump, è “guilty as hell”, e gli agenti federali sono stati “molto gentili con lei”, che “ha perso perché ha fatto campagna negli stati sbagliati”, altro che inchieste.
La delicata posizione di Comey non è l’unico grattacapo dell’Fbi, istituzione che è al centro di una gazzarra politico-giudiziaria su più livelli.
La vicenda del documento dai contenuti esplosivi e non verificati sugli intrecci fra Trump e Putin di recente pubblicato da BuzzFeed lambisce anche il bureau.
Un’inchiesta di Michael Isikoff, esperto di questioni di intelligence che lavora per Yahoo News, ha rivelato che Christopher Steele, l’ex agente dei servizi britannici che ha redatto questo lavoro di “oppo research” commissionato da avversari politici di Trump, è stato a lungo un asset dell’Fbi. Steele ha dato consulenze all’istituzione americana su diversi dossier che riguardavano la Russia, scenario su cui è esperto, e da ultimo ha fornito informazioni sui legami tra la Fifa ed esponenti della criminalità organizzata russa.
Il documento di Steele su Trump è pieno di quello che in gergo viene definita “raw intelligence”, un eufemismo per definire informazioni non controllate, rumors, dicerie captate da fonti più che dubbie e altre notizie poco attendibili. Ma in virtù della sua consuetudine con l’Fbi è stato accolto come fonte credibile quando, nell’agosto del 2016, a Roma ha incontrato un agente del bureau e gli ha consegnato il dossier di 35 pagine che è stato pubblicato questa settimana e subito bollato da Trump come “fake news” e “roba fasulla”. Anche il Cremlino ha smentito i contenuti di un report che molti esperti d’intelligence giudicano, in buona sostanza, una patacca. Il credito che Steele aveva presso l’Fbi aggiunge alla storia un fattore che va oltre la questione della veridicità delle “golden shower” organizzate da Trump sul letto in cui avevano dormito gli Obama a Mosca.
Come poteva l’agenzia di controspionaggio americana dare credito alle indagini, peraltro commissionate da oppositori di Trump, condotte da Steele, tanto che il documento è arrivato fino a essere citato dai capi dell’intelligence americana nei briefing presidenziali? In poche ore molti analisti che conoscono il mestiere della raccolta d’informazioni hanno rilevato tutti i punti deboli del memo, ma Steele era giudicato credibile dall’Fbi, e questo bastava. Per aggiungere un altro elemento alla confusione regnante, questo caso è del segno politico contrario a quello per cui Comey è finito sotto indagine.
Ora l’ex agente britannico è scomparso dalla circolazione, i dubbi sulla condotta dell’Fbi no.
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