La presidenza americana non è un reality show: e chi l’ha detto?
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E’ dal 1960, dallo scontro decisivo in tv tra Kennedy e Nixon, che l’immagine televisiva del candidato fa premio sul resto. Lo stesso Obama, che ora critica la campagna elettorale delle primarie, ha usato i media per il suo nobile racconto afro-americano. E adesso c'è Trump
Donald Trump (foto LaPresse)
di Giuliano Ferrara | 08 Maggio 2016 ore 06:03 Foglio
Quando dice che la presidenza americana non è un reality show, Obama ha una bella faccia tosta. E’ dal 1960, dallo scontro decisivo in tv tra Kennedy e Nixon, che l’immagine televisiva del candidato fa premio sul resto. Perché vincesse JFK, di un’incollatura, ci volle anche l’aiutino della simpatica e baldante mafia democratica di Chicago, come sanno i meno giovani e i cultori di storia americana, ma senza la faccia fresca del promettente patrizio della costa orientale appaiata al faticoso e sudaticcio politicante californiano molto probabilmente non se ne sarebbe fatto niente.
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La democrazia americana è molto cambiata dai tempi del presidente Calvin Coolidge, anni Venti, Golden Age, che si poteva permettere di rispondere così ai giornalisti, nonostante l’irruzione della radio nella vita pubblica. Ci fa una dichiarazione sullo stato della campagna per la sua rielezione? “No”. Vuole dirci qualcosa sullo stato del mondo? “No”. Ha qualche informazione da darci sul tema del proibizionismo? “No”. Dopodiché Coolidge concludeva: “Mi raccomando, non mi citate”. Obama in persona queste cose le sa molto bene. Dall’inizio si è presentato come una maschera di teatro, ha venduto le sue origini e il suo sogno impacchettandoli in un formidabile mito che solo la televisione poteva riflettere e proiettare su scala americana e mondiale, e anche l’essenza dei suoi otto anni alla Casa Bianca non sta nel suo professionismo politico notevole o nei suoi errori giganteschi e cinici sulla scena mondiale, sta nell’uso televisivo del suo corpo, della sua famiglia, della sua inconfondibile e rassicurante retorica.
Certo The Donald è un semplificatore, la sua mania dello sberleffo, dell’insulto e del colpo basso si apparenta al “vaffaday” di Beppe Grillo, e anche lui come il comico italiano ha goduto del trascinamento dello spazio-tempo televisivo, questa nuova categoria kantiana della realtà, per due miliardi di dollari in valore tariffario dell’advertising politico (sono calcoli diffusi negli Stati Uniti, d’altra parte Trump ha speso pochissimo nelle vittoriose primarie). Lo script di Obama era il nobile racconto afro-americano, “Dreams of My Father”, razza e eredità; il libro di Trump ha per titolo una formula meno sofisticata per il successo, “The Art of the Deal” ovvero l’arte del commercio. A ciascuno il suo, anche in fatto di preparazione, studi ed esperienza, ma per entrambi show e realtà coincidono nella fruizione tendenzialmente totalitaria o universale del mito politico. La tv non ha inventato alcunché, la mitificazione politica dura da tre millenni almeno, è scritturale, ma adesso fa sdraiare la democrazia delle masse elettorali sul divano dello psicoanalista, raggiunge l’inconscio tra le pareti di casa e manipola il manipolabile. Dalla mitificazione alla mistificazione il passo non è lungo.
Sono cose che sappiamo anche in Europa, in Italia. Trump ha la potenza distruttiva di Berlusconi, del pool di Mani Pulite e di Beppe Grillo messi insieme. La demagogia americana classica non ha mai avuto il tocco leggero, malgrado lo slogan di Huey P. Long, governatore della Louisiana a cavallo della Grande Depressione del 1929, sia la creazione più vicina al “sole in tasca” del grande Berlusconi: “Every Man a King”, ogni uomo è un re, la perfezione che porta le risaie e i pantani del sud all’altezza aristocratica di Tocqueville. Da quello che sappiamo per esperienza, denunciare in modo compunto e dottrinario la pericolosità del mito politico lo accresce, e se la élite democratica pensa di vincere su The Donald a forza di lezioni di buone maniere, bè, tanti auguri.
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