Ecco tutti i numeri del declino della libertà di parola nei campus inglesi
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Intervista con Tom Slater, autore di “Unsafe space”: le scuole e università inglesi stanno rinunciando asempre più ad essere uno spazio di dibattito
di Cristina Marconi | 28 Aprile 2016 ore 10:23 Foglio
Londra. Al bando le belle discussioni franche, dovessero mai ferire qualcuno. La gloriosa universitàbritannica sta diventando un posto in cui una studentessa può rifiutarsi di partecipare a una lezione su un romanzo dell’Ottocento perché le ricorda troppo le sue disavventure sentimentali e in cui al sindaco di Londra, Boris Johnson, viene ritirato l’invito a un dibattito alla London School of Economics sulla Brexit per le considerazioni “inopportune” sulle origini keniote del presidente Barack Obama. Il tutto con la benedizione di quella National Union of Students, NUS, che ha appena eletto la ventottenne Malia Bouattia, una che suggerisce di iniziare a “prendere ordini” dai palestinesi “che stanno attivamente sostenendo la lotta e la resistenza contro l’occupazione” israeliana.
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“E’ una follia che esiste da lungo tempo ma che da tre anni a questa parte ha preso proporzioni inquietanti”, spiega Tom Slater, ventiquattrenne autore di “Unsafe Space”, un libro sulla censura nei campus, e soprattutto promotore insieme alla rivista Spiked di una campagna per l’abolizione del “no-platforming”, ossia di quella pratica che consiste di non invitare qualcuno a un dibattito se ha espresso opinioni controverse in passato. “Il problema è che prima si applicava ai nazisti, ora a Germaine Greer” (colpevole, per chi non lo sapesse, del reato di transfobia per aver detto, tra le altre cose, che Caitlin Jenner “non è una vera donna”) racconta Slater, ripercorrendo le “strane alleanze” che si vanno formando nei campus in nome della censura. “A Goldsmith il gruppo Lgbt si è alleato con la società islamica che aveva attaccato l’attivista per i diritti umani iraniana Maryam Namazie durante una conferenza”, rievoca Slater, che ammette di non aver letto Michel Houellebecq ma che conferma che “un sacco di censura è influenzata dall’islamismo e dalla paura dell’islamofobia”.
Ma che ci siano opinioni forti in circolazione non lo disturba, fino a quando possono essere discusse apertamente. “Il problema principale – osserva – è la disponibilità e la prontezza con cui le istituzioni accolgono queste istanze e rinunciano ad essere uno spazio di dibattito”, soprattutto da quando sono state introdotte tasse universitarie più alte. Anche per Rachael Jolley, direttrice della rivista di Index on Censorship, “è preoccupante aver visto la crescita nella cultura studentesca britannica di alcune forti lobby di studenti che pensano che sia meglio mettere a tacere un dibattito” e il diffondersi di “una cultura dell’accusa” in cui chiunque è in disaccordo è “fobico” e “accecato dall’odio”. Per Jolley il NUS “ha contribuito a promuovere l’idea di silenziare il disaccordo e il dibattito”, ma secondo un sondaggio della Bbc il 63 per cento degli studenti ritiene che il “no-platforming” sia una pratica giusta. Spiked pubblica ogni anno una classifica degli atenei in base alla loro capacità di promuovere dibattiti liberi.
I risultati mettono un po’ d’angoscia: il 90 per cento delle 115 università esaminate ha censurato qualcosa. Oxford ha il bollino rosso per aver “messo al bando e attivamente censurato delle idee nel campus”, Cambridge quello arancione per aver “bloccato la libertà d’espressione attraverso un intervento”. Per trovare un po’ di verde-libertà tocca andare a Worcester o a Canterbury. Altrettanto inquietante risulta il “Trigger Warning”, un avvertimento che segnala agli studenti che quello che stanno per leggere li potrebbe sconvolgere. Un testo come “Sir Galvano e il Cavaliere Verde”, romanzo medievale anonimo, viene ora presentato agli studenti di Cambridge con la premessa che contiene una battuta su uno stupro, e pazienza se è incomprensibile ai più. Per Slater, “l’idea che la vita intellettuale debba includere dei rischi, delle sfide”, sta morendo sui verdi prati dei campus americani e britannici. A sostituirla c’è un “complesso di vittimismo multiculturale” in cui, piano piano, si finirà col non dire più niente. Col non parlarsi più.
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