Ecco il "fuoco amico" dei banchieri centrali su Draghi
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Lo studio della Bri, alla vigilia delle decisioni della Bce, che prova a smontare il panico da deflazione. Peggio le bolle finanziarie, dicono da Basilea
di Marco Cecchini | 10 Marzo 2016 ore 11:02 Foglio
“Torna lo spettro della deflazione” è il titolo più comune sui media nazionali ed europei quando davanti all’indice dei prezzi compare il segno meno. Negli ultimi dodici mesi nell’Eurozona è successo due volte: a settembre 2015 e il febbraio scorso. E in tutti e due i casi è scattato l’allarme rosso. Nella narrazione corrente, infatti, l’idea è che dietro quello spettro marcino le armate della disoccupazione e della povertà, come fu in effetti negli anni Trenta del ventesimo secolo durante la Grande Depressione. Ma non tutti la pensano in modo così ovvio. Anzi nel mondo accademico il campo si divide equamente tra chi la vede come un biglietto senza ritorno verso la stagnazione e chi invece ritiene che la deflazione non sia affatto incompatibile con la crescita economica.
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In questo secondo filone si è inserita di recente la Banca dei regolamenti internazionali (Bri), la più autorevole e la più longeva tra le istituzioni finanziarie internazionali, che funziona da banca centrale delle banche centrali. Il suo ingresso in campo è significativo, perché fa uscire il dibattito sulla deflazione dal ristretto perimetro degli esperti portandolo sul terreno delle scelte di politica economica attuali. La banca di Basilea ha analizzato i dati di 38 paesi sviluppati relativamente al periodo 1870-2013 ed è giunta alla conclusione che la relazione tra il fenomeno della deflazione e quello della bassa crescita economica (misurata dall’andamento del reddito pro-capite) è “debole”. Il periodo a cavallo tra la fine dell’800 e gli inizi del nuovo secolo per esempio fu caratterizzato da ampi fenomeni deflattivi associati ad alto sviluppo economico e processi intensi di industrializzazione. Analogamente nel Secondo Dopoguerra il boom economico che ha interessato paesi come Italia, Germania e Giappone ha coinciso con fasi di significative discese dei prezzi. Nel complesso di questo periodo il tasso di crescita delle 38 economie analizzate “è risultato più alto nei periodi di deflazione che di inflazione”.
Anche oggi i bagliori deflazionistici che si accendono di tanto in tanto si prestano a interpretazioni diverse. La Spagna per esempio è cresciuta nel 2015 del 3,2 per cento con un’inflazione zero, divenuta negativa in gennaio: ciò che ha fatto dire al ministro dell’Economia, Luis De Guindos, che “la deflazione è come il colesterolo, c’è quella buona e quella cattiva”. In effetti sembra proprio essere questo il punto. La deflazione non è necessariamente indice “negativo” di una carenza di domanda, come sostiene la narrazione corrente: può essere segnale “positivo” di un eccesso di offerta, dovuto per esempio ai complessi effetti della globalizzazione sui processi produttivi e la formazione dei prezzi internazionali. La diagnosi sul tipo di deflazione in corso diventa quindi cruciale ai fini delle scelte di politica economica. Se è la globalizzazione a guidare la danza dei prezzi, infatti, è inutile usare la leva monetaria per contrastarla. Secondo gli esperti svizzeri tuttavia la relazione deflazione-crescita da debole diventa “forte” se la discesa interessa anche i prezzi degli asset finanziari, soprattutto se ci troviamo in un contesto di alto indebitamento privato e pubblico, a causa degli effetti reali potenzialmente molto importanti di una caduta della ricchezza finanziaria. Ma anche qui causa della eventuale recessione economica non sarebbe la deflazione dei prezzi dei beni e dei servizi, bensì le politiche passate che hanno permesso uno sproporzionato accumulo di debito privato e pubblico. Come dire che la deflazione è "sintomo" di un malessere la cui causa è da cercare nel debito.
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