Dietro l’ottenimento della bad bank non c’è un pranzo di gala per le Pmi
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Liberando i bilanci bancari dalla metà delle sofferenze si guadagnerebbero 1,5-2 punti di pil. Il problema è fissare un prezzo corretto per la cessione dei crediti alle mini-bad bank
di Renzo Rosati | 27 Gennaio 2016 ore 14:50
Roma. E' arrivato ieri in tarda serata un via libera (servono approfondimenti e altri pareri della burocrazia europea) dal summit a Bruxelles tra il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e la commissaria danese alla Concorrenza Margrethe Vestager, che si è prolungato ben oltre il previsto. Il tempo però stringe, e i mercati sembrano credere nel passo avanti verso la soluzione del problema dei 201 miliardi di sofferenze bancarie (350 il totale dei prestiti a rischio) che zavorrano i nostri istituti di credito. Ne è convinto anche Padoan che sui dettagli tecnici dell’operazione si è finora coordinato con la Vestager per evitare un ennesimo niet. Niente bad bank unica e di sistema, ma singoli contenitori per istituto con garanzia finanziaria del governo, e tecnica della Cassa depositi e prestiti, che però non può essere data a prezzo troppo basso per non configurare aiuto di stato, né troppo alto per non scoraggiare il mercato di questi titoli. Mercato che in Italia manca completamente, benché secondo il Boston Consulting group liberando i bilanci bancari dalla metà delle sofferenze si guadagnerebbero 1,5-2 punti di pil. Il problema è fissare un fair value, un prezzo corretto per la cessione dei crediti alle mini-bad bank, definiti Svp, “special purpose vehicle”, rispetto al valore iscritto nei bilanci. E poi applicarvi la garanzia pubblica, con l’Italia che aveva proposto lo 0,8 per cento, prezzo irrisorio secondo la Vestager. Il fair value è a sua volta teoricamente identificato in esperienze straniere nel 18 per cento del prezzo in bilancio, ma dipenderà da una quantità di variabili: se e quanto costa la garanzia pubblica (se poco il valore aumenta); di che tipo sono i crediti, molti dei quali immobiliari; il ruolo della magistratura in eventuali azioni di sequestro. L’Italia tuttavia fa appunto caso a sé.
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E all’interno del problema più ampio ce n’è appunto un altro che riguarda proprio il modello industriale italiano basato sul “piccolo è bello”. Così le sofferenze delle banche di credito cooperativo (Bcc) sono mediamente superiori alle banche maggiori. Per le Bcc il governo dovrebbe approvare giovedì una riforma dedicata, con la creazione di una holding di controllo ad adesioni spontanee e capitale minimo di un miliardo. Secondo uno studio del Sole 24 Ore e di Mediobanca per 37 banche cooperative, cioè una su dieci, i crediti deteriorati superano il 20 per cento dei prestiti: concessi in buona parte a piccole e piccolissime imprese familiari. I casi limite sono la Cassa rurale di Camerano, la Banca di Teramo, la Cassa rurale di Pinzolo, la Banca di Pistoia, le Bcc di Recanati, Agrobresciano, Levico Terme. Cioè Marche, Abruzzo, alta Toscana, Lombardia, Trentino: non il profondo Sud ma le regioni simbolo di imprenditorìa diffusa. Neppure le altre cooperative se la passano benissimo: Carmelo Barbagallo, capo della Vigilanza della Banca d’Italia, ne sottolinea il forte aumento di crediti deteriorati, e la minore copertura da accantonamenti. Come per le banche popolari i problemi sono il “rapporto con il territorio”, già fiore all’occhiello anche politico: le micro-imprese, appunto, dipendenti e famiglie, poteri locali. Su queste abitudini è già intervenuto il governo con la riforma delle Popolari; per le banche cooperative il modello di holding di sistema è il Crédit Agricole, terza banca francese, primo istituto mutualistico europeo che controlla al 55 per cento le banche regionali transalpine. La patologia è però il sottodimensionamento del tessuto imprenditoriale, cliente naturale delle banche locali. Le piccole imprese con meno di 50 dipendenti e meno di 10 milioni di fatturato, le micro con meno di 10 dipendenti e meno di 2 milioni di fatturato rappresentano oltre 90 per cento degli associati alla Confindustria, e finora sono state portate in palmo di mano come simbolo dell’economia italiana. Negli anni Ottanta il Censis di Giuseppe De Rita teorizzava l’impresa “a cespuglio”, e ancora a settembre l’Ocse ne sottolineava la capacità esportatrice. L’handicap è il basso livello tecnologico dell’export (che si batte contro Slovenia, Estonia, Irlanda e Ungheria), la forte presenza di imprenditori-familiari (dove l’Italia è inferiore solo a Slovacchia, Messico, Repubblica Ceca e Polonia); e lo scarso accesso al credito.
Un’indagine del 2015 della Banca centrale europea evidenzia che per le aziende italiane, greche e portoghesi questo aspetto rappresenta il 60 per cento dei fattori d’incertezza sulle prospettive di sviluppo, contro il 30 per cento della Germania. Per il Fondo monetario internazionale la stretta creditizia ha avuto un impatto peggiore – un punto di pil – nei paesi con maggiore presenza di mini-imprenditorialità. E uno studio Confcommercio-Cer quantifica in 97,2 miliardi i crediti mancanti alle piccole imprese italiane. Dopo la mitica del “piccolo è bello”, crescere sembra l’imperativo per finanziarsi e migliorare il know how. Un caso limite? Proprio Toscana e Marche, dove molte aziende tessili familiari sono retrocesse a fornitrici a basso costo di quelle cinesi.
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