Perché dovremmo preoccuparci del continuo calo della popolazione italiana
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Potrebbe suonare strano preoccuparsi per i destini di una popolazione, quella italiana, che ha raggiunto il suo massimo storico appena alla fine del 2014 con la bellezza di 60 milioni e 800 mila abitanti.
di Roberto Volpi | 18 Gennaio 2016 ore 11:39 Foglio
Ma sta di fatto che, secondo dati appena forniti dall’Istat, nel mese di settembre 2015 rispetto allo stesso mese del 2014 i nati hanno continuato a diminuire.
Potrebbe suonare strano preoccuparsi per i destini di una popolazione, quella italiana, che ha raggiunto il suo massimo storico appena alla fine del 2014 con la bellezza di 60 milioni e 800 mila abitanti. Ma sta di fatto che, secondo dati appena forniti dall’Istat, nel mese di settembre 2015 rispetto allo stesso mese del 2014 i nati hanno continuato a diminuire, perdendo altre 4 mila e passa unità, i morti sono ancora leggermente aumentati di 800 unità (anche se sembra essersi fermata la grande moria del 2015), il movimento migratorio è diventato addirittura negativo: più gente che esce di quanta ne entri nel paese. Per un risultato finale che vede al 30.9.2015 un’Italia con 115.776 abitanti in meno rispetto al 31.12.2014. Non era mai successo. E c’è da aspettarsi il peggio. Il perché sta in tre questioni di fondo.
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La prima: il tasso di nuzialità, attestato a uno spaventosamente anemico 3,1 matrimoni annui ogni mille abitanti (4,1 a livello U.E.: altra, ma assai meno patologica, anemia), è tale da non consentire, di per sé, un numero sufficiente di nascite, che infatti stanno attestandosi sotto il mezzo milione annuo contro un numero di morti destinato a superare stabilmente e di gran lunga i 600 mila. Su questo aspetto non si manca di fare della propaganda, col dire che quasi il 30 per cento delle nascite sono di coppie non sposate. Vero, ma si dimentica di aggiungere che gran parte di queste coppie ha progetti matrimoniali o, una volta arrivato il figlio, prenderanno a coltivarli. In altre parole: i bambini si fanno dentro il matrimonio o guardando al matrimonio o comunque ricorrendo, una volta concepiti, al matrimonio. Pochi, fuori da questi confini.
La seconda questione è data dalla popolazione femminile in età feconda, una quota della popolazione che non fa che ridursi per i sempre più scarsi contingenti di donne che varcano i confini di questa età: conseguenza assai amara della riduzione delle nascite degli anni passati che si prolunga nel presente. Tra l’inizio del 2012 e quello del 2015 la popolazione femminile è aumentata di 626 mila unità, ma quella di 14-49 anni, convenzionalmente ritenuta feconda, di unità ne ha perse 146 mila, col risultato che in soli tre anni la popolazione femminile feconda è passata dal 45 al 43,6 per cento della popolazione femminile, perdendo mezzo punto percentuale l’anno (a questo ritmo la popolazione fertile scenderebbe a zero in 90 anni, per intenderci). Cosicché siamo al paradosso che se pure le donne in età feconda residenti in Italia intendessero fare più figli (e non ci sono segnali che vanno in questo senso) riuscirebbero a malapena a compensare i minori figli dovuti a nient’altro che alla contrazione del loro numero.
La terza questione riguarda i flussi migratori, il cui saldo positivo è precipitato da 244 mila nel 2012 a 141 mila nel 2014 a 14 mila nei primi otto mesi del 2015, cosicché diventa sempre più chiaro che questo saldo non riuscirà, come invece ha fatto finora, a evitare lo scompenso negativo dovuto alle maggiori morti rispetto alle nascite – che potrebbe superare quota 150 mila nel 2015. Ma non è tutto, perché la questione dei flussi migratori presenta un secondo aspetto: quello dell’inabissamento, nel senso letterale del termine, del tasso di fecondità, passato in due decenni da 2,7 a meno di 2 figli in media per donna straniera – un tasso di fecondità, vale a dire, che continuando così si trasformerà presto in un ulteriore problema, piuttosto che un vantaggio, per la popolazione italiana.
Siamo chiari, allora: stanti questi fondamentali e queste tendenze, la popolazione italiana, e dunque l’Italia, non ha scampo. Sono fondamentali e tendenze che, estrapolati nel tempo, portano alla fine letterale della nostra popolazione nel giro di qualcosa come un secolo e mezzo massimo due. Intendiamoci: sono previsioni che lasciano il tempo che trovano, queste; non sappiamo come e neppure se possa esaurirsi una grande popolazione moderna come quella italiana. Manca l’esperienza. Ma previsioni Istat fatte appena nel 2011 danno un saldo positivo della popolazione italiana per la fine del 2015 di 200 mila abitanti, mentre ne avremo uno negativo con ogni probabilità attorno alle 150 mila unità. Dunque se previsioni più che fondate sono saltate nel giro di quattro anni la faccenda non è grave, è molto grave. E allora vediamo di agire, prima che i pochi margini che ancora ci restano si riducano a zero. Come? C’è una sola questione, tra le tre elencate, che può essere spinta in avanti con una certa immediatezza da un’azione coordinata su vari fronti, a cominciare da quello culturale: quella relativa al matrimonio. Accusato di passatismo, se non di arcaismo, di arretratezza valoriale, legato alla crisi del sentimento religioso degli italiani, messo all’angolo prima dal divorzio poi dalla parola d’ordine “basta l’amore”, che tanti proseliti fa tra quanti amano rapporti di coppia più liberi e agilmente modificabili, reso ancora più problematico dalla crisi economica e di prospettive che abbiamo attraversato, il crollo del matrimonio è, con tutta evidenza, alla base del crollo demografico. Nel deserto dei matrimoni è inutile sperare in una ripresa delle nascite e in un sussulto di vitalità capace di scollarci dal muro dell’inanità demografica che tutti ci minaccia – con lo spettro vago, lontano, e tuttavia non impossibile dell’estinzione. O, più realisticamente, dell’inarrestabile declino, in un futuro già scritto, del nostro ruolo e del nostro posto nel mondo.
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