Mea culpa emergenti

La Borsa cinese frena la discesa, ma questo sarà l’anno in cui ricredersi della solidità dei Brics

Ashoka Mody

di Ugo Bertone | 06 Gennaio 2016 ore 06:01 Foglio

Milano. Gli argini, per ora, non hanno subìto nuovi danni. La Borsa di Shanghai, dopo aver gettato la spugna alle 13 e 29 del 4 gennaio sotto la pressione delle vendite, ha ieri retto all’urto grazie al contributo di acquisti per venti miliardi di dollari, arrivati a soccorso dei titoli più importanti assieme al soccorso della Consob locale che ha garantito che il divieto di vendere titoli imposto lo scorso agosto alle finanziarie pubbliche durerà ancora per un po’. Grazie a questa robusta terapia l’indice di Shanghai ha recuperato un timido 0,3 per cento, senz’altro insufficiente a compensare lo shock del 7 per cento andato in fumo in poche ore nel lunedì nero. Quasi che il mercato azionario della seconda potenza economica del mondo possa essere trattato come un pugile alle corde, costretto a gettare la spugna. Ci vorrà tempo per assorbire quel KO. Un po’ perché le cause della crisi (la frenata dell’economia, l’eccesso di debito, le tensioni valutarie attorno allo yuan, l’opacità delle regole e così via) restano.

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Molto, perché il tracollo dei l mercato azionario è un brutto colpo alle ambizioni dl leadership di Pechino nei confronti delle economie emergenti, a partire dai Brics, il pacchetto d’urto delle nuove potenze del pianeta (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) che sembrava destinato a imporre nuovi equilibri e nuove regole al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale. E che, al contrario, oggi è costretto a tremare di fronte alla valanga di debiti (in dollari) che, in assenza di acquisti di materie prime da parte della Cina, ogni giorno si fanno più insidiosi e meno sostenibili. Certo, il lunedì nero di Shanghai ha messo in ginocchio anche l’Europa e Wall Street. Ma l’effetto sugli emergenti si è fatto sentire assai di più, vista la fragilità finanziaria e politica che attanaglia Brasile, Turchia o Russia, paesi a rischio di nuove, rovinose svalutazioni che potrebbero far esondare un debito estero che, se si tiene conto degli impegni delle imprese private, supera largamente il 100 per cento del pil. Significativa, al proposito, l’analisi (meglio: l’autocritica) dell’ex direttore del Fmi per l’Europa, l’economista indiano Ashoka Mody: proprio il Fmi sarebbe colpevole di aver sopravvalutato la solidità dei paesi emergenti. Al contrario, una volta che la facciata è andata a pezzi “è emersa una sgradevole verità: l’alto prezzo delle materie prime ed il massiccio afflusso di capitale ha nascosto per lungo tempo una strutturale debolezza dell’economia legittimando una smaccata cultura dell’ineguaglianza ed una corruzione rampante. Questi problemi emergono ora nella loro gravità con il rallentamento della crescita cinese”. Una diagnosi spietata anche perché “il peggio deve ancora venire”, ammonisce Modi, sottolineando che “va ridimensionata la sovraccapacità produttiva della Cina così come la bolla immobiliare”. Vanno anche frenate le acquisizioni all’estero e, più ancora, “va smantellato il network della corruzione”.

Ma non facciamoci illusioni: “i fattori che hanno causato la crisi del 2015 non saranno eliminati, anzi talvolta si rafforzeranno nel nuovo anno”. Un’analisi spietata raccolta, all’apparenza, alla signora Lagarde, attuale direttore esecutivo del Fmi, ma che in realtà suona come uno spietato atto d’accusa alla leadership di Pechino, incapace di metter sotto controllo i “Barbari ale Porte”, già titolo di un best seller sugli squali di Wall Street ma che oggi è stato rispolverato da un anonimo di Shanghai per raccontare la scalata al colosso immobiliare Vanke, uno dei recenti episodi più chiacchierati della Borsa cinese.

Categoria Economia

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