C’è da essere ottimisti, anche sulla diseguaglianza. Lo dice la Storia
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Crisi dei rifugiati e violenze mediorientali? Poca cosa rispetto alla miseria nera che ci siamo lasciati alle spalle
di Angus Deaton | Nobel Economia 2015 27 Novembre 2015 ore 11:05
Circondati come siamo da orrori – la crisi dei rifugiati in Europa e in medio oriente, l’instabilità di questa regione, la guerra civile in Siria, la povertà di ancora settecento milioni di persone e l’approfondirsi quasi ovunque delle disuguaglianze –, tendiamo a dimenticare quanto il nostro benessere materiale sia elevato rispetto a quello dei nostri nonni, dei nonni di questi e di altre generazioni ancora precedenti. Intendo, per miseria, l’assenza di risorse materiali essenziali; ma è indigenza anche vivere in condizioni di cattiva salute, morire prima ancora di essere entrati nella vita adulta, o prima di avere sperimentato il piacere di diventare nonni. Anche dal punto di vista politico si sono fatti molti passi avanti; la democrazia si è diffusa e (…) si è straordinariamente ridotta la violenza: quella di singoli contro singoli ma anche quella delle guerre e delle carestie, se non altro per la quota di persone coinvolte. Sono in buona misura un ricordo del passato anche le forme di discriminazione tradizionali, contro le donne, i neri, le caste più basse e gli intoccabili, gli omosessuali. Le carestie sono molto meno frequenti che in passato, e a provocarle sono quasi invariabilmente guerre o altri fattori politici. Dovremmo smetterla dunque di prestare attenzione alle sole notizie relative all’oggi e ai disastri. Se adottiamo una prospettiva appena più ampia vediamo bene che la vita sta in realtà migliorando, e da molto molto tempo. In questa sede, desidero raccontare la storia di alcuni episodi di progresso: ricordare come il genere umano abbia affrontato certe specifiche sfide, e come e perché sia riuscito a superarle. Ma voglio richiamare l’attenzione anche sulla disomogeneità di questo progresso, sia nel tempo – vi sono state talvolta battute d’arresto terribili – sia tra individui – quando qualcuno ha accesso ai vantaggi prodotti prima degli altri, il progresso causa disuguaglianze. La disuguaglianza è un incentivo al progresso, ma può anche comprometterlo.
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Chi passa in testa, chi escogita una nuova importante invenzione o chi trova un nuovo modo di sfruttare un’idea diventa spesso ricco e lascia indietro tutti gli altri. Se i ricchi sono i primi a trarre beneficio da una nuova, efficace terapia, tra di essi e coloro che non hanno accesso ai nuovi farmaci si apre una disuguaglianza in termini di salute. Questi divari spronano chi è rimasto indietro ad avere anch’egli o anch’ella successo, e sono pertanto motori potenti del progresso generale. E’ il lato positivo della disuguaglianza. Ma talvolta chi ha fatto bene torna sui propri passi per cercare di preservare i propri privilegi e impedire agli altri di riuscire, ad esempio varando leggi nel proprio interesse o cercando, come dicono gli economisti, di “catturare” il governo. Quando ci riescono, la disuguaglianza si trasforma in un freno al progresso, e gruppi ristretti di persone si riempiono le tasche a spese della popolazione nel suo insieme: un processo che l’economista e scienziato sociale Mancur Olson ha descritto nel corso degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.
(…) Gli storici ritengono oggi che, per una parte lunghissima della sua storia, l’umanità non abbia sperimentato alcun progresso materiale. Per migliaia di anni se la sarebbe semplicemente cavata – a volte sì e a volte no. Solo di rado il cibo disponibile superava lo stretto necessario, quasi la metà dei bambini moriva prima di raggiungere l’età adulta, e i sopravvissuti soffrivano di malattie croniche per l’intera durata della loro esistenza. In alcuni luoghi e alcune epoche, capitò che le cose andassero meglio. Lo storico Ian Morris ha descritto le straordinarie condizioni di vita di cui godettero nell’XI secolo gli abitanti di Kaifeng, allora una laboriosissima città cinese costellata di fumosi mulini, animata da centinaia di teatri, e nella quale era di massa anche la produzione di libri. Nell’età imperiale del XVI e XVII secolo, a risultare “vincenti” furono l’Inghilterra e l’Olanda, tanto che nel 1750 i lavoratori manuali di Londra e Amsterdam percepivano redditi superiori a quelli dei lavoratori di Delhi, Pechino, Valencia e Firenze; sembra che i lavoratori inglesi potessero permettersi anche alcuni beni di lusso, come il tè e lo zucchero. Tuttavia, fino al XVIII secolo, questo genere di episodi non ebbe mai vita lunga. (…) In ogni caso, intorno al 1750 qualcosa cambiò: siamo agli albori della prosperità di cui godiamo oggi. Di questa svolta sono state proposte molte spiegazioni diverse, ma è chiaro che l’Illuminismo europeo deve avervi avuto parte. Stanca di obbedire ciecamente alla chiesa e al trono, la gente iniziò a perseguire il proprio benessere e la propria felicità a modo suo. Si aprì a nuove idee e a nuovi modi di fare le cose. Partita in Gran Bretagna e di qui diffusasi in Olanda, negli Stati Uniti e quindi nel resto dell’Europa nord-occidentale, la rivoluzione industriale diede inizio, per la prima volta nella storia umana, a una crescita economica continua.
Sono due gli aspetti della rivoluzione industriale sui quali desidero richiamare l’attenzione. Il primo è costituito dalle conquiste nel campo della salute che la accompagnarono, cosicché i passi avanti nelle condizioni di vita si intrecciarono con i passi avanti nella longevità. Non penso che le conquiste in termini di salute siano state causate dalla crescita, bensì che l’una e le altre siano frutto delle stesse forze profonde: l’indagine scientifica applicata e la conoscenza utile. Il secondo aspetto è rappresentato dallo straordinario approfondirsi delle disuguaglianze globali, molte delle quali sono ancora con noi.
Una delle vicende più interessanti, dal punto di vista delle conquiste in campo sanitario, è quella riguardante il vaiolo, una malattia oggi scomparsa ma un grave flagello per buona parte della storia umana. Prima del XVIII secolo, in Inghilterra, pochi sfuggivano al contagio, benché molti riuscissero comunque a sopravvivere. Una dama della corte di Giorgio I, Lady Mary Wortley Montagu, famosa bellezza del suo tempo, si ammalò anch’essa di vaiolo da adulta, nel 1715. In quanto moglie dell’ambasciatore inglese in Turchia, Lady Mary ebbe modo di vedere praticare la tecnica nota come vaiolizzazione o inoculazione. Si prelevava del materiale biologico infetto da una vittima del vaiolo e lo si iniettava sottocute a una persona sana, la quale, se fortunata, diventava immune alla malattia per il resto della vita. Sperimentata questa tecnica su alcuni detenuti e bambini abbandonati, re Giorgio acconsentì alla vaiolizzazione dei suoi nipoti, nessuno dei quali morì. Nel corso del XVIII secolo, questa pratica si diffuse ampiamente tra gli aristocratici inglesi, e grazie ad essa e ad altre innovazioni in campo sanitario tra il 1750 e il 1850 la loro aspettativa di vita aumentò di 25 anni. Molte di queste procedure erano estremamente costose al momento della loro introduzione, e dunque inaccessibili alle persone comuni. Prima del 1750, gli aristocratici vivevano tanto a lungo quanto il resto della popolazione. Il denaro e il potere non proteggono dalla morte se a mancare sono le stesse conoscenze utili cui il denaro o il potere possono dare accesso, e fu nella produzione di queste conoscenze che l’Illuminismo primeggiò. Ma non appena i nuovi metodi divennero disponibili, le disuguaglianze di potere e ricchezza si trasformarono in disuguaglianze di salute. Assistiamo allo stesso processo anche oggi; in molti casi, sono i più ricchi e i più istruiti ad accedere per primi alle procedure di screening o ai farmaci preventivi di nuova invenzione.
(…) A misurare il numero dei poveri nel mondo è la Banca mondiale. Le sue ultime stime sono dell’ottobre di quest’anno: a vivere con meno di 1,90 dollari a persona al giorno sono 902 milioni di individui o il 12,8 per cento della popolazione mondiale. La soglia di 1,90 dollari può apparire sorprendente a chi sia abituato a quelle di 1,25 o anche 1 dollaro al giorno, ma credo che la Banca mondiale abbia ragione nel sostenere che 1,90 dollari nel 2011 era equivalente in termini di potere d’acquisto a 1,25 dollari nel 2005, almeno nei paesi più poveri. Perciò, per quanto vi siano buone ragioni per discutere se questa soglia sia fissata o meno a un livello accettabile – una decisione da cui dipende ovviamente il numero stesso degli individui da considerare poveri –, di una cosa non si può dubitare, e cioè che nel corso dell’ultimo quarto di secolo questo numero si è ridotto in modo straordinario. I passi avanti più rapidi li hanno fatti la Cina e in misura minore l’India, vale a dire i due paesi più grandi del mondo. Ma negli ultimi anni anche l’Africa – a lungo il continente più arretrato, con il 42,6 per cento della popolazione in povertà nel 2012 – ha assistito a una riduzione consistente della miseria. (…)
Con il ridursi della miseria nel mondo povero, sono migliorate le condizioni di salute. Elaborata in Europa alla fine del XIX secolo, la teoria microbica delle malattie ha portato i suoi frutti in Africa e Asia solo dopo la Seconda guerra mondiale: si è iniziato a sottoporre i bambini a vaccinazioni sistematiche, gli interventi di controllo sui vettori delle malattie si sono fatti più efficaci, e si è diffusa in misura sempre maggiore la consapevolezza dell’importanza dell’acqua pulita. La mortalità infantile e dei bambini si è ridotta di anno in anno. Non c’è paese al mondo la cui mortalità infantile e dei bambini sia risultata nel 2010 più alta che nel 1950. La speranza di vita è aumentata nel mondo povero più rapidamente che nel mondo ricco. Naturalmente, a creare questo vantaggio è, ed è stata, da un lato la riduzione della mortalità dei neonati e dei bambini, nei paesi ricchi già realizzata da lungo tempo, e dall’altro il dato di fatto che salvare vite giovani aumenta l’aspettativa di vita più di quanto possa fare salvare la vita di adulti o anziani. Riguardo ai tassi di mortalità di questi ultimi gruppi di età, il recupero dei paesi poveri è stato minore. La salute è migliorata anche nei paesi ricchi. In Europa occidentale e in Nord America, la quota dei fumatori è inferiore a cinquant’anni fa, e più persone utilizzano farmaci con i quali tenere sotto controllo la pressione sanguigna o il colesterolo. Grazie all’adozione di nuovi stili di vita e alla scoperta di nuove terapie, si è rapidamente ridotto il numero delle malattie cardiache e la vita nei paesi ricchi si è allungata ancora di due o tre anni ogni decennio.
(…) Nonostante le minacce, resto sommessamente ottimista. Le forze più profonde all’origine della grande fuga – la brama di libertà e l’ingegno profuso nel cercare di procurarsela – continueranno a operare per vite migliori. Può colpirci una catastrofe e molto andare perduto, ma il sapere di base si conserva e lo si può ricomporre. La democrazia è sotto la minaccia della disuguaglianza. Come è noto, il giudice Louis Brandeis ha dichiarato che gli Stati Uniti possono avere o la democrazia o una forte concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, ma non entrambe le cose. Gli Stati Uniti stanno oggi mettendo alla prova la verità di questa tesi. Tuttavia, anche qui, la democrazia è straordinariamente resistente; riguardo a molte questioni dispongono di ingenti risorse su entrambi i fronti, e l’esito delle elezioni resta difficile da prevedere o controllare. Non penso che il nostro futuro sia sicuro, ma non credo neppure che la grande fuga sia soltanto un altro bagliore di prosperità di breve durata, che tra un migliaio di anni sarà dimenticato.
Angus Deaton è economista dell’Università di Princeton, premio Nobel per l’Economia nel 2015. Autore de “La grande fuga”, libro edito dal Mulino.
Quelli che anticipiamo sono stralci di un suo intervento pubblicato dal bimestrale in uscita “Il Mulino”, diretto da Michele Salvati