La vera domanda sulla Cina
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Il remake di Lehman in Borsa, la finestra d’opportunità socchiusa e l’export europeo che frena
di Marco Valerio Lo Prete | 24 Agosto 2015 ore 19:18 Foglio
Roma. Se per l’economia dell’Eurozona, e quella italiana in particolare, si era aperta una “finestra di opportunità” per crescere – come la chiama il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan – in queste ore è come se un’anta di quella finestra si stesse richiudendo violentemente. La “finestra di opportunità”, come noto, era quella aperta dalla politica monetaria espansiva della Banca centrale europea (con annessi tassi d’interesse sul debito bassi e Borse rampanti), dall’euro debole che favorisce le esportazioni e dal petrolio a buon mercato. La folata di vento che ha chiuso un’anta prima del previsto, invece, spira dalla Cina. Non si tratta di una chiusura ermetica, ma il botto è stato forte.
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Lunedì il crollo della Borsa di Shanghai (meno 8,5 per cento) ha scatenato infatti una valanga di vendite sui listini europei che sono tornati ai minimi da sette mesi. Piazza Affari ha perso 6 punti. L’indice Ftseurofirst 300, che raccoglie le trecento aziende europee più capitalizzate, ha segnato un crollo prossimo all’8 per cento, la flessione peggiore dall’ottobre del 2008, cioè dai tempi del crac di Lehman Brothers negli Stati Uniti. E’ stata l’agenzia di stato cinese, Xinhua, e non qualche analista fantasioso, a definirlo un “lunedì nero”. La molla, perlomeno nell’immediato, sembra essere stata la decisione di Pechino di non intervenire ancora a sostegno dei mercati locali, come era accaduto due settimane fa dopo la triplice svalutazione dello yuan e prim’ancora dopo i primi scricchiolii in Borsa. Non che finora il Partito comunista cinese si fosse risparmiato: nelle ultime sette settimane, Pechino ha acquistato azioni di aziende quotate per 200 miliardi di dollari; mentre dall’11 agosto ha speso altri 200 miliardi di dollari delle proprie riserve per evitare che lo yuan si deprezzasse ancora. Guardando più a fondo, però, s’intravvede un rallentamento della crescita del paese già quest’anno, e soprattutto un cambiamento di modello di sviluppo in corso: da un modello fondato su esportazioni e investimenti, a uno che si basa maggiormente sui consumi interni (vedi analisi qui a fianco).
L’Eurozona, nel breve termine, ha poco da gioire. Non solo per il contagio borsistico. Uno studio del gruppo Sanford C. Bernstein rivela che dal gennaio 2015 gli stabilimenti delle 23 principali joint venture che producono automobili nel paese asiatico – joint venture che colossi stranieri come Volkswagen e Gm sono costretti a formare con partner locali – per la prima volta non hanno sfruttato i loro impianti a pieno regime. Solo al 94,3 per cento, contro il 107,4 del 2014, quando si aggiungevano turni extra di lavoro per far fronte alla domanda di vetture. I bilanci dei gruppi in questione risentiranno del rallentamento. Poi verranno le esportazioni made in Europe, finore il canale principale della ripresa, ed ecco perché la finestra d’opportunità rischia di socchiudersi. Una svalutazione dello yuan di qualche punto non è certo la panacea con la quale l’export cinese può avvantaggiarsi ai nostri danni, visto pure che oramai nelle economie globalizzate si ragiona per “catene di valore” integrate (uno yuan svalutato, per dire, può favorire pure l’americana Apple e il suo made in China). Tuttavia la Germania potrebbe essere il paese più colpito dal calo di domanda cinese. Pechino nel 2014 ha importato beni per 74,5 miliardi di euro da Berlino, divenendo la quarta mèta dell’export tedesco. L’Italia a sua volta esporta beni intermedi in Germania, dunque non è immune a un ipotetico rallentamento. E le esportazioni dirette di Roma verso Pechino, seppure inferiori a quelle tedesche, valgono circa 11 miliardi, in aumento dai 9,8 miliardi di soli due anni fa.
Con i beni destinati ai consumi che sono passati, negli ultimi dieci anni, dal 15 per cento del nostro export al 25. Stante una crescita del pil stimata dal governo allo 0,7 per cento nel 2015, anche un lieve contraccolpo può restringere i margini della finanza pubblica. Tra clausole di salvaguardia da annullare e sgravi fiscali da coprire, al Tesoro sperano di non dover rimettere mano alle stime di crescita. Gregorio De Felice, capo economista di Intesa, dice al Foglio: “Noi continuiamo a stimare un più 0,6 per cento quest’anno e un più 1,2 il prossimo. Per ora non vediamo il bisogno di correzioni al ribasso. Certo, un rallentamento della domanda mondiale non è una buona notizia, ma il cambiamento in corso in Cina nel medio termine è positivo”. Di reazione “ipocondriaca” dei mercati, ieri, parlava anche Erik F. Nielsen di Unicredit: le violente correzioni di Borsa tradirebbero almeno in parte il rialzo dei listini degli ultimi mesi, dovuti alle politiche ultra espansive delle Banche centrali. Anche quell’anta, prima o poi, dovrà essere riaccostata.