L’Istat traccia la strada per la ripresa. Renzi prenda appunti
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Il rapporto dell’Istituto di statistica sfata diversi miti sulla crisi economica italiana. I segnali positivi ci sono tutti. Ecco la “mappa per leggere il paese”
di Stefano Cingolani | 20 Maggio 2015 ore 10:36
Secondo il rapporto Istat, i consumi riprendono a salire (foto LaPresse
L’Italia se l’è cavata. Ha preso colpi duri, ma meno pesanti di quelli inferti agli altri paesi che quei simpaticoni del Financial Times hanno chiamato Piigs (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna). Sette anni di vacche magre si sentono, eccome. E tre anni consecutivi di recessione hanno fatto cadere la produzione, i redditi e soprattutto i posti di lavoro stabili. Tuttavia tanti luoghi comuni apocalittici e declinisti non reggono alla prova delle cifre messe insieme, decrittate e analizzate dall’Istat nel rapporto 2015 che il nuovo presidente Giorgio Alleva presenta a Montecitorio.
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Prendiamo l’idea molto diffusa che l’Italia non abbia tenuto il passo del mercato mondiale. E’ vero, nessuno ha retto all’irrompere della Cina e tutti i paesi occidentali sono arretrati. Tra il 2010 e il 2014 l’Italia ha fatto meno bene della Germania e della Spagna, che ha recuperato grazie al drammatico taglio dei salari, però il valore delle esportazioni italiane è cresciuto più di quello francese, tanto che abbiamo tolto quote di mercato ai transalpini, soprattutto nei paesi extra euro. Un altro stereotipo è che le donne hanno pagato più cara la crisi. Non è così, per esempio se la sono cavata meglio degli uomini in termini di occupazione e persino di istruzione universitaria. Certo, il gap resta e la miglior tenuta femminile è dovuta anche all’aumento del part time involontario. Eppure l’Istat dimostra che ai maschi è andata peggio. I pensionati sono riusciti a proteggersi più dei lavoratori attivi: persino l’indicatore di miseria è inferiore nelle famiglie con anziani. Ancora: l’industria italiana resta piccola, frastagliata, familiare, quindi fragile. E si modernizza lentamente (l’e.commerce e l’uso di internet sono ancora arretrati rispetto agli altri paesi europei). Tutto giusto. Però “il sistema delle imprese italiane supera la media europea per propensione all’innovazione”.
Sono valutazioni qualitative che scaturiscono dalla gran quantità di cifre. Ma quest’anno ancor più che nel passato, l’Istat mescola giudizi di valore e giudizi di fatto, con un impianto analitico che ha molte somiglianze con quello del Censis (la centralità del territorio, la forza del localismo, le reti e l’importanza delle “relazioni d’impresa”, tanto per fare qualche esempio) e con una gran voglia di pensare positivo, in sintonia con il nuovo Zeitgeist. I rapporti di Enrico Giovannini erano quelli della crisi dura, parlavano di competitività perduta, di diseguaglianze crescenti, di risorse sprecate a cominciare dal lavoro. L’Istat di Alleva guarda alla ripresa.
I segnali ci sono. Per confermare la svolta bisogna aspettare in teoria tre trimestri, magari ne bastano almeno due, tanta è la voglia di scacciare l’aria mefitica che s’alza dalla palude. L’Istat è prudente e non azzarda previsioni, tuttavia cominciano a salire i consumi (+0,3) e gli investimenti (+1,4 in impianti e macchinari) anche se questo resta il grande punto debole, come spiega il professor Alleva: “Tra il 2008 e il 2014 la quota degli investimenti sul prodotto lordo è diminuita di 4,5 punti (costruzioni comprese) e l’anno scorso è scesa ancora del 3,3 per cento”. Il cavallo ancora non beve. Da più parti (e non solo dalla Cgil che ne ha fatto un tormentone) si vorrebbe supplire con gli investimenti pubblici. Ma chi lo propone non sa dove prendere le risorse.
Dopo due anni di contrazione, nel 2014 è tornata a crescere anche l’occupazione (88 mila in più) soprattutto tra gli anziani, gli stranieri e le donne. Le unità di lavoro sono aumentate dello 0,6 per cento nell’industria in senso stretto. E si è ridotta la cassa integrazione. Nonostante ciò, la disoccupazione peggiora (unico paese in Europa). E’ il lascito peggiore della crisi che ci allontana dal resto d’Europa. Anche i salari cominciano a muoversi, sia pur lentamente, e la caduta dei prezzi s’è fermata. Insomma, le premesse ci sono tutte. Bisognerà vedere se si tratta di ripresa vera o di ripresina, se dura e accelera o se si appiattisce. Molto dipende da che cosa accadrà alla domanda interna.
La spinta al rialzo è stata determinata nei mesi scorsi dalla svalutazione dell’euro, dal calo dei tassi di interesse, dal tonfo del prezzo del petrolio, dallo stimolo monetario della Bce (+0,7 per cento di pil nel prossimo anno) e dalla stessa discesa dei prezzi che ha fatto crescere il potere d’acquisto a parità di reddito percepito. Secondo l’Istat, i fattori esogeni tendono a stabilizzarsi (dal greggio ai cambi) e il testimone passa ai fattori endogeni. A questo punto gli statistici non possono che sospendere il giudizio. Le riforme strutturali cominceranno a dare i loro frutti? La pressione fiscale verrà ridotta? Gli stipendi dei dipendenti pubblici saranno sbloccati? Ci sono soldi per migliorare le infrastrutture? Il debito comincerà a scendere (per ora continua a peggiorare)? Non sta certo al professor Alleva rispondere. Ma questi sono esattamente i nodi di politica economica che il governo dovrà sciogliere a breve.
La parte più nuova riguarda le “mappe per leggere il paese”, l’elogio della diversità, i sistemi urbani, l’istruzione (“l’alta formazione premia”, quindi dottori di ricerca a tutto spiano), il patrimonio culturale che resta ancora molto potenziale, a parte in quel sottosistema definito “la grande bellezza” (una caduta nel conformismo mediatico che stona in un lavoro che vorrebbe essere meno scontato). Piacionerie a parte, il presidente ha impresso il suo segno. A Renzi non dovrebbe dispiacere. Ma soprattutto farebbe bene a leggere il rapporto e trarne ispirazione.
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