Renzi, le pensioni, e il futuro da proteggere contro i diritti acquisiti

Continuiamo a occuparci della sentenza con cui la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una norma del decreto Salva Italia approvato dal governo Monti nel 2011

di Marco Valerio Lo Prete | 18 Maggio 2015 ore 13:19 Foglio

Oggi, come ogni lunedì, è andata in onda "Oikonomia", la mia rubrica su Radio Radicale, tra classici dell'economia, attualità e definizioni.

Continuiamo a occuparci della sentenza con cui la Consulta ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una norma del decreto Salva Italia approvato dal governo Monti nel 2011, norma con la quale era stata bloccata la rivalutazione automatica dei trattamenti pensionistici in base all'inflazione, per gli anni 2012 e 2013, escludendo soltanto i trattamenti che erano fino a tre volte la pensione minima di circa 500 euro mensili. La decisione della Consulta e l’attesa di milioni di pensionati di vedersi rimborsati i mancati adeguamenti degli scorsi anni hanno causato un problema non da poco per il Governo. L’esecutivo ha fatto capire che il rimborso non sarà generalizzato e in qualche modo tenderà a escludere gli assegni pensionistici molto più alti del minimo. Ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha annunciato infatti che dal 1° agosto quattro milioni di pensionati riceveranno più o meno 500 euro a testa; e ha aggiunto: "Scriveremo una nuova norma rispetto al blocco delle indicizzazioni che restituirà a una parte dei pensionati una parte dei soldi”. Il presidente del Consiglio ha pure fatto capire che le risorse necessarie per finanziare questo rimborso verranno, per un ammontare di circa 2 miliardi di euro, da una somma che l’esecutivo aveva pensato finora di poter utilizzare per il contrasto alla povertà.

Un’affermazione che rimanda ancora una volta alla questione redistributiva, e soprattutto generazionale, collegata al dossier pensioni. La scorsa volta abbiamo ricordato le antiche critiche del premio Nobel Franco Modigliani a un sistema previdenziale cosiddetto “a ripartizione”, in cui i lavoratori di oggi pagano i contributi non per se stessi quando diventeranno inattivi, ma per gli attuali inattivi. Con un'operazione di evidente trasferimento intergenerazionale, il reddito dei giovani di oggi diventa un reddito per i più anziani di oggi. Modigliani preferiva un sistema a capitalizzazione, invece, con i contributi dei lavoratori di oggi che si accumulano per costituire un capitale che viene investito – da un organismo pubblico, nelle proposte del Nobel scomparso nel 2003 – e può generare il reddito necessario per il momento in cui i giovani saranno invecchiati.

Il fatto che oggi Renzi si dica costretto a pagare i rimborsi ai pensionati con i soldi accantonati per combattere la povertà fa presagire un aggravamento dello squilibrio generazionale del welfare italiano. Come se non bastasse il sistema di finanziamento attuale delle pensioni, la Banca d’Italia nella sua indagine più recente sui bilanci delle famiglie italiane ci ricorda che “tra il 2010 e il 2012”, dunque già durante la crisi, “il reddito equivalente si è ridotto per tutte le classi di età, tranne per coloro con più di 64 anni per i quali è rimasto sostanzialmente invariato (l’indice relativo passa dal 106 al 114 per cento della media generale). Si conferma dunque anche in questa rilevazione il trend relativamente più favorevole alle classi anziane. Dal 1991 al 2012, il reddito equivalente degli individui anziani sale in termini relativi dal 95 al 114 per cento della media generale. Anche per coloro che hanno fra 55 e 64 anni la posizione relativa migliora (+ 18 punti percentuali). Per le classi di età più giovani, invece, il reddito equivalente diminuisce significativamente rispetto alla media generale: in particolare, il calo è di circa 15 punti percentuali per le persone fra 19 e 34 anni e di circa 12 punti percentuali per quelli tra 35 e 44 anni”. Rispettando in parte o in toto la sentenza della Consulta, non si rischia di aggravare ancora questa tendenza?

Secondo molti è così. Tra questi c’è Sandro Brusco, economista della Stony Brook University, che sul blog NoiseFromAmerika ha proposto alcune strade per correggere il tiro. Innanzitutto Brusco ipotizza di ricalcolare gli assegni pensionistici in essere con lo stesso criterio che si utilizza ora, cioè il criterio contributivo. Ancora con la riforma Amato del 1992, infatti, il beneficio pensionistico veniva calcolato partendo dalla media delle retribuzioni più alte ricevute nella vita attiva. Con la riforma Dini del 1995 in modo graduale, e poi in maniera radicale con la riforma Fornero del 2011, invece, l’assegno pensionistico è commisurato ai contributi versati lungo l’arco della vita attiva. Ricalcolare tutte le pensioni in essere con questo secondo criterio potrebbe comportare la riduzione di alcuni assegni pensionistici. I risparmi, secondo Brusco, potrebbero essere usati per abbassare le tasse su lavoro e impresa.

Una seconda ipotesi è quella di “modificare l'Irpef, riducendo le detrazioni per i redditi da pensione e aumentando le detrazioni per i redditi da lavoro dipendente e lavoro autonomo”. Infine Brusco ipotizza una “redistribuzione indiretta mediante cambiamento del mix fiscale”, e fa l’esempio dell’Imu che, “per come è attualmente strutturata, si tratta di una tassa sul possesso  di immobili. Per la determinazione dell'ammontare dell'imposta è irrilevante se il proprietario lo ha acquisito accendendo un mutuo che sta ancora pagando o se invece non ha debiti che gravano su di esso. Si potrebbe cambiare l'imposta rendendola una imposta sulla ricchezza netta legata all'immobile, determinando la base imponibile come data dal valore dell'immobile meno il valore del mutuo che il proprietario deve ancora pagare. Dato che le classi di età più anziane hanno debiti nettamente inferiori a quelli delle classi di età più giovani, questo cambiamento provocherebbe in media uno slittamento della pressione fiscale dai più giovani ai più anziani. Più in generale, mutamenti del sistema fiscale che riducono i contributi sociali risultano maggiormente favorevoli ai lavoratori”.

Sono tutte ipotesi che cercano di ristabilire un minimo di giustizia intergenerazionale. Un tema sollevato, tra i primi, dall’economista inglese Arthur Cecil Pigou (nato nel 1877 e scomparso nel 1959), conosciuto per il suo impegno in quella che è stata definita “economia del benessere”. Scriveva nel 1932 Pigou: “C’è un ampio accordo sul fatto che lo Stato debba proteggere, in qualche misura, gli interessi del futuro, contro gli effetti delle nostre preferenze irrazionali a favore di noi stessi e a discapito dei nostri discendenti. (…) E’ chiaramente compito del governo, che è il garante delle generazioni di non nati come pure dei suoi attuali cittadini, sorvegliare e – se necessario – legiferare per difendere le risorse naturali e finite di un paese contro una sconsiderata spoliazione”.

Categoria Economia

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