Quei giudici per cui il welfare è ancora “variabile indipendente”

In Europa, produzione poca, diritti acquisiti tanti. E pure in Grecia s’attende una sentenza in stile “italiano” sulle pensioni

di Renzo Rosati | 05 Maggio 2015 ore 10:42 Il Foglio

Roma. Che cosa ha convinto i giudici costituzionali a dichiarare illegittimo il blocco delle indicizzazioni sulle pensioni superiori a tre volte il minimo (1.405 euro lordi), deciso a fine 2011 mentre l’Italia rischiava il default, in base a una sfilza di articoli della “carta”, ma non, per dire, al numero 81, che obbliga alla copertura di ogni uscita di spesa pubblica? Ancora più visto che quello stesso articolo 81 è stato irrobustito con il vincolo del pareggio di bilancio? E perché la Consulta ha disposto il rimborso degli arretrati con tanto di ricalcolo retroattivo, mentre a febbraio aveva cancellato la Robin tax sulle aziende petrolifere, ma senza retroattività “per evitare gravi squilibri di bilancio”? La Robin tax valeva un miliardo di euro l’anno, 6 miliardi in caso di arretrati. I quali per le pensioni producono invece un buco che potrebbe superare i 12 miliardi: per i quali Bruxelles ha chiesto ieri di individuare altre coperture nel Documento di economia e finanza, appena inviato. Dov’è la logica, oltre alla coerenza del diritto? Una risposta formale non arriverà mai dal palazzo settecentesco a fianco del Quirinale. La si scorge però nelle motivazioni della sentenza: “L’interesse dei pensionati, in particolare i titolari di trattamenti modesti, è teso alla conservazione del potere d’acquisto, da cui deriva in modo consequenziale il diritto a una prestazione previdenziale adeguata. Tale diritto costituzionalmente fondato risulta sacrificato nel nome di esigenze finanziarie non illustrate in dettaglio”. A parte la bizzarria della non illustrazione “in dettaglio” dei problemi di quel dicembre 2011, siamo all’immutabilità del welfare costituzionalmente fondata: ne deriva il sostanziale divieto a riformare uno stato sociale che non ci si può più permettere, riforme che parevano la lezione europea della crisi; il volto innovatore del rigorismo tedesco e la vittoria culturale di Angela Merkel sui paesi con le mani bucate.

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In fondo perfino la bistrattata corte di Karlsruhe, sulla legittimità degli interventi straordinari della Banca centrale europea che avrebbero leso i diritti costituzionali della Germania e dei suoi contribuenti, ha passato la palla all’Europa e alla sua Corte di giustizia, riconoscendo che misure comuni possono essere giudicate da una comune giurisprudenza. Per non dire della Gran Bretagna, l’altra culla storica del welfare state, che procede alla rottamazione a blocchi delle sue parti più insostenibili. Ma già, la (lontana) parente inglese della Consulta è stata abolita nel 2009. Né esistono precedenti a Londra, e neppure a Parigi, di imbarcate di precari formalmente “imposte” da corti europee, tipo le 100 mila assunzioni in luogo di quelle per concorso e merito sotto le quali si rischia di seppellire #labuonascuola. E prima c’erano state le graduatorie sistematicamente cancellate dai vari Tar; mentre sempre la giustizia amministrativa – le Corti dei conti di Emilia Romagna e Liguria – è tra i promotori del ricorso sulle pensioni. A proposito delle quali, la stessa Consulta aveva già dichiarato illegittimo il contributo di solidarietà sui trattamenti più ricchi, imponendone la restituzione (ticket reintrodotto sotto altra forma dal 2014). In Grecia invece, nei prossimi giorni, è attesa una sentenza dalla più alta corte amministrativa su una norma che nel 2012 – quando il paese era sull’orlo del default, poi in parte avvenuto – ridusse alcuni assegni pensionistici; secondo le indiscrezioni, ad Atene si attende un esito giurisdizionale “italiano”, con aggravi di oltre 1,5 miliardi di euro annui per le finanze pubbliche elleniche. Anche lì adesso spunterà qualcuno che, come la Cgil in Italia, chiederà di coprire il buco con la solita patrimoniale? Oppure tra i sindacati ci sarà chi accarezzerà l’idea di ricorrere alla Corte contro il blocco dei rinnovi contrattuali del pubblico impiego. Altro che riforme. Sono lontani i tempi – correva l’anno 1984 – in cui Bettino Craxi cancellava per decreto il punto unico di scala mobile, vincendo l’anno dopo anche il referendum abrogativo.

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