Crisi dell'euro, su come ci si è arrivati non è ancora detta l'ultima parola
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Oggi, come ogni lunedì, su Radio Radicale è andata in onda "Oikonomia", la mia pillola settimanale di economia. A Parigi si è appena conclusa una tre giorni di seminari tra economisti, filosofi, imprenditori e operatori della finanza
Foto Sinn
di Marco Valerio Lo Prete | 13 Aprile 2015 ore 13:38 Foglio
A Parigi si è appena conclusa una tre giorni di seminari tra economisti, filosofi, imprenditori e operatori della finanza convocati da Inet, l'Institute for New Economic Thinking fondato e finanziato dal finanziere George Soros. La ricerca di un paradigma economico alternativo, di un nuovo modo di pensare l'economia appunto, secondo l'economista e il biografo di Keynes Robert Skidelsky, anche lui affiliato con il think tank di Soros, è necessaria e urgente per il seguente motivo: "Le policy keynesiane sembrarono funzionare per 25 anni prima di soccombere alla crisi della stagflazione. La nuova politica economica classica, in breve il monetarismo, sembrò funzionare per circa 15 anni, prima di cadere vittima della Grande recessione del 2008. La hybris - secondo Skidelsky - è la convinzione di essere nel giusto, quali che siano le prove a sostegno delle proprie tesi. Gli economisti sono particolarmente inclini alla hybris in ragione dell'estremismo del loro metodo di ricerca e della difficoltà ad applicare alle loro teorie il principio di falsificazione di Karl Popper".
Comunque la si pensi sull'esito e sulle motivazioni profonde di questa forma di revisionismo ispirata da uno dei massimi esponenti della finanza mondiale contemporanea, guarda caso allievo di Popper ma non di certo alieno da pregiudizi e preferenze personali piuttosto marcati, vorrei dare un'idea della complessità della sfida. Partendo dal dibattito ancora aperto, proprio in sede Inet, sull'origine della crisi dell'euro. Una crisi sulla cui origine, ancora oggi, è possibile dissentire, come hanno dimostrato in queste ore le analisi comparate di Hans-Werner Sinn (economista tedesco e presidente del think tank Ifo), Domenico Lombardi (direttore del think tank canadese Cigi), e Andrea Terzi (della Franklin University in Svizzera). La domanda da cui sono partiti i tre economisti è la seguente: la crisi della moneta unica è stata generata dalla "dissipatezza fiscale" o dai "flussi di capitali"?
Infatti una scuola di pensiero sulla nascita dell'attuale crisi la vorrebbe originata innanzitutto dall'eccessiva spesa pubblica di alcuni paesi della moneta unica. E' stata questa la tesi, sopratutto subito dopo l'esplosione della crisi dei debiti sovrani, sposata dalla leadership governativa tedesca, ma anche di economisti come Vito Tanzi, secondo cui "i problemi che oggi colpiscono diversi paesi, e non solo quelli membri dell'Unione economica e monetaria, hanno meno a che fare con l'architettura inizia dell'Eurozona e con il dolo della moneta unica, anche se questi probabilmente hanno giocato un ruolo, e molto più a che fare con la sostenibilità dei livelli di spesa pubblica di questi paesi, un livello che è diventato sempre più difficile da mantenere, specialmente in un mondo in cui i capitali finanziari sono liberi di muoversi dentro e fuori da un paese" ("Dollars, Euros and Debt", Palgrave Macmillan, 2013).
L'economista tedesco Sinn, per spiegare la situazione attuale, prende le mosse da questi movimenti di capitale, ma aggiunge un altro tassello per motivare l'ipotizzata "dissipatezza" fiscale. In estrema sintesi, l'unione monetaria avrebbe ingigantito il fenomeno del "credito estero a basso costo" che dalla fine degli anni 90 ha iniziato ad affluire in paesi che prima della moneta comune sarebbero stati giudicati troppo rischiosi come destinazione d'investimento. Tale flusso di capitali, essenzialmente dai paesi del centro dell'Eurozona a quelli della periferia, secondo Sinn era in parte voluto, doveva aggiustare il riequilibrio dell'area. Abbiamo assistito però a un processo di "overshooting", come lo chiama l'economista tedesco. Questo flusso di capitali, per esempio, ha alimentato in Grecia una forte tentazione dello Stato a spendere e ad assumere nuovi dipendenti; tale meccanismo ha generato un rialzo dei salari anche nel settore privato e un'inflazione relativa che ha tagliato le gambe alla competitività del paese. In Spagna quell'afflusso di capitali esteri ha alimentato invece un boom immobiliare, innescando poi lo stesso meccanismo di perdita di competitività rispetto all'Europa centrale. Finora, secondo Sinn, tra aiuto della Banca centrale e pacchetti di salvataggio dei paesi europei, si è solamente rallentata la necessaria correzione dei prezzi relativi nell'area.
Andrea Terzi, intervenendo a Parigi, ha invece sostenuto in maniera apparentemente paradossale che è stata "una carenza di debito" la "causa finale" dell'attuale crisi europea. Ha proposto una "revisione critica" del concetto di risparmio, considerato dalla teoria ortodossa come "la fonte di risorse per promuovere investimenti". Nell'economia contemporanea, secondo Terzi, i risparmi di chiunque invece richiedono sempre di essere a loro volta finanziati e di essere dunque associati all'emissione di debito di un altro soggetto dell'economia. "I risparmi non finanziano, devono essere finanziati". Se dunque il debito - privato, pubblico o estero - è la linfa di ogni possibile spesa, allora l'Eurozona, prima con il Trattato di Maastricht e poi con il Fiscal compact, ha imposto un tetto al debito pubblico, "inibendo così una delle fonti maggiori di risparmio". Al continente non è rimasto così che affidarsi a un crescente debito privato a un flusso permanentemente alto di esportazioni.
Domenico Lombardi, infine, ha proposto un approccio ancora diverso, analizzando nello specifico il caso italiano. Cioè quello del paese più colpito già nella prima fase della crisi, quella del 2007-2009, peggio anche anche della Grecia. Colpa della dissipatezza fiscale? Difficile sostenerlo, dice Lombardi, visto che dagli anni 90 a oggi l'Italia ha sempre registrato un avanzo primario – cioè la differenza tra entrate e uscite pubbliche al netto degli interessi sul debito pubblico – se si escludono gli anni più neri della crisi, il 2009 e il 2010. Né l'Italia ha registrato squilibri di conti con l'estero o quantità eccessive di indebitamento privato. Quel che piuttosto si può osservare è che se il nostro paese, dal 1995 a oggi, fosse cresciuto come la media dell'Eurozona, oggi il rapporto debito/pil sarebbe al 115% invece che al 135%. La ragione principale della nostra bassa crescita si trova nei "fondamentali deboli" della nostra economia: bassa produttività a fronte di una continua crescita salariale; bassi livelli di educazione; scarsa attività di ricerca e sviluppo; in generale uno degli ecosistemi più ostili al business in tutto il mondo avanzato. La ricerca di un nuovo paradigma economico sarà lunga e tortuosa.