Perché il Pil italiano cresce solo zero virgola. Intervista a Blangiardo (Istat)

Il presidente dell'Istat a Formiche.net: il secondo trimestre confermerà la crescita allo 0,3%, non è esaltante. Quota 100? Non sta avendo grande seguito

Francesco Bechis,23.6.2019 www.formiche.net

Il presidente dell'Istat a Formiche.net: il secondo trimestre confermerà la crescita allo 0,3%, non è esaltante. Quota 100? Non sta avendo grande seguito, mi dicono stime inferiori alle aspettative. Il Paese invecchia, e non fa figli. Tagliare la spesa può aggravare la situazione. Ma è anche un problema di clima culturale

Un Paese che invecchia, ma non cresce. È il severo bilancio che sembra tracciare l’ultimo rapporto annuale Istat. Che racconta un’Italia senescente, e ostile a chi oltre ogni calcolo vuole mettere al mondo un figlio. “C’è un problema di clima culturale – chiosa il presidente dell’istituto Gian Carlo Blangiardo in questa intervista a Formiche.net. Il secondo trimestre rischia di chiudersi con una crescita ferma agli zero virgola, con buona pace delle promesse gialloverdi. Il demografo però resta ottimista. La bellezza è il vero “petrolio” italiano, da lì si deve ripartire “per rilanciare la crescita”.

Presidente, l’unica cosa che cresce in Italia è l’età media?

Mi sembra una visione della realtà troppo pessimistica, quasi catastrofica. I problemi ci sono, ma senza un minimo di ottimismo è difficile superarli.

Le vostre stime sulla crescita nel secondo trimestre non fanno ben sperare.

Faccio una premessa. Il primo trimestre è stato modestamente positivo e ha confermato l’interruzione di un trend negativo. Il secondo trimestre, che è ancora in corso, ha alcuni tratti positivi e altri meno.

Partiamo dalle brutte notizie.

La congiuntura internazionale non aiuta. L’economia tedesca, con cui abbiamo solidi legami, non è in buona salute, pesa in particolare la caduta della produzione industriale. Resto del parere che il bilancio finale del secondo trimestre fotograferà una decrescita molto moderata. Sempre ammesso che ci sia veramente decrescita. Non dimentichiamo che la si è ipotizzata come “piuttosto probabile”, non come una certezza.

Cosa intende per moderata?

La stima finale del secondo trimestre, ove ci sia, non sarà comunque tale da far cadere la stima di quel + 0.3% su base annua prospettato tanto dall’Istat quanto dal Mef con modelli diversi. Non è certo un risultato esaltante, ma accontentiamoci.

Il rapporto Istat riaccende i riflettori sul debito pubblico italiano. Per ridurlo bisogna tagliare la spesa o alzare le tasse. Il governo sembra orientato alla prima soluzione. Ma il calo demografico che voi fotografate è legato a doppio filo alla spesa pubblica. Come se ne esce?

Non c’è dubbio che il calo demografico richieda attenzione da parte dell’autorità pubblica, anche in termini di spesa. Io credo che bisognerebbe altresì attivare nuove soluzioni per fronteggiare le emergenze. In tal senso il Rapporto ne evidenzia qualcuna.

Cioè?

Ad esempio valorizzare le specificità che la ricchezza del nostro Paese presenta, dall’ambiente alla cultura. Abbiamo visto come un turismo ben governato possa diventare prezioso anche in realtà del territorio che sembravano poco valorizzabili in quanto “interne”. Questo è il nostro petrolio, è l’unica strada da percorrere per rilanciare la crescita. La manifattura conta, ma ci sono anche fattori che solo noi possiamo mettere in campo. Abbiamo ereditato un’enorme ricchezza su cui nessuno, cinesi, tedeschi o romeni, può farci concorrenza.

Ecco un altro punto su cui quasi nessuno può farci concorrenza. L’Italia invecchia, ma non fa più figli. Perché?

Il calo demografico non è stato improvviso, è una tendenza in atto da tempo. Per quarant’anni il numero medio di figli per donna, ovvero ciò che esprime la capacità di ricambio della popolazione, è rimasto inferiore alla “soglia di due, oggi è fermo intorno a 1,3.

I numeri assoluti sono anche meno rosei.

Lì subentrano elementi strutturali. Ultimamente sono uscite dall’età feconda le donne nate al tempo del “babyboom” degli anni ‘60. Il loro posto è stato preso da un numero di donne ridotto. Non si tratta dunque solo di non voler fare più figli. C’è un problema legato al numero delle potenziali mamme.

Perché secondo lei gli italiani hanno paura a fare un figlio?

Ci sono anzitutto ragioni di natura economica. I figli costano denaro, ma anche tempo. Impegnano soprattutto le donne, che devono fronteggiare la difficoltà di essere madri e lavoratrici al tempo stesso. Non è ragionevole che le donne che hanno studiato rinuncino al loro investimento per dedicare tempo alla maternità, dovrebbero essere due scelte vicendevolmente non esclusive. Il Rapporto documenta l’esistenza di tali difficoltà in modo inequivocabile.

Come?

Mentre recentemente rileviamo che l’occupazione femminile è cresciuta di tre punti, notiamo come invece l’occupazione delle donne con figli tra 0 e 2 anni sia diminuita di un punto e mezzo. Avere figli piccoli allontana decisamente dal mercato del lavoro.

Di cosa parliamo?

Di un clima culturale che non sostiene le coppie che scelgono di fare due, tre, quattro figli. Chi deve fare un sacrificio fatica meno se sente che la sua scelta è condivisa e apprezzata dalla comunità di appartenenza. Questo senso di gratificazione sociale oggi manca.

Quanto ha fatto l’immigrazione regolare per arginare il crollo demografico?

Ha senz’altro avuto un impatto. Oggi i bambini nati in Italia da almeno un genitore straniero sono 99.000. Il numero però è andato diminuendo negli ultimi anni. Non è pertanto questo il contributo più risolutivo alla crisi demografica.

Alla Camera ha fatto un paragone con il primo dopoguerra. Ci spiega meglio?

Ho fatto presente che dal 2015 ad oggi la popolazione totale residente in Italia è andata diminuendo, ci sono 405.000 oggi residenti in meno, e non è un dato marginale. Una diminuzione di questa portata si trova nella storia d’Italia solo se si fa riferimento al biennio 1917-1918, quando si scontarono gli effetti della I Guerra Mondiale e della successiva epidemia di “spagnola”.

Aumentano invece gli anziani, ovvero i pensionati, ovvero la spesa pubblica…

La differenza fra ingressi nella popolazione pensionata o pensionabile e uscite per morte è destinata a crescere almeno fino al 2030. In parte si deve all’immissione dei cosiddetti babyboomers, che erano in tanti quando sono nati e saranno altrettanti da anziani. Un altro elemento che avrà un impatto sull’equilibrio pensionistico è la componente di futuri pensionati stranieri. Ovvero persone che non sono nate in Italia che qui sono destinati a invecchiare. Spesso si tratta di immigrati che sono diventati regolari in età adulta e dunque hanno una storia contributiva un po’ travagliata.

In questo contesto ha senso mettere in campo una misura di pre-pensionamento come Quota 100?

Devo dire che il prepensionamento si è fatto in passato con modalità ben più impegnative per la finanza pubblica. Specialmente negli anni ’70 e ’80, quando il pre-pensionamento di lavoratori di 40-50 anni ha profondamente scosso il sistema pensionistico. Peraltro non mi sembra che Quota 100 stia avendo grande seguito. Per il momento le stime mi dicono essere inferiori alle aspettative.

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