L'Onu e i suoi fallimentari 70 anni (Auguri)
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Dopo 70 anni (e mezzo trilione di dollari) cosa hanno ottenuto le Nazioni Unite? Il bilancio triste e fallimentare del più grande jet set delle buone intenzioni. Inchiesta sull’industria della bontà
di Giulio Meotti | 21 Settembre 2015 ore 10:03 Foglio
Ci sono quaranta paesi produttori di vino in tutto il mondo. Chi volesse trovarli tutti sulla stessa carta, dai rossi italiani alle cantine di Samarcanda, deve riservare un tavolo alla Delegates Dining Room delle Nazioni Unite. Oggi è uno dei migliori ristoranti di New York. Dopo aver superato il controllo di sicurezza, da lì si potrà godere della vista spettacolare sull’East River e su Queens e gustare una cena per la modica cifra di 34 dollari. Se sei in compagnia di un dipendente dell’Onu puoi anche parcheggiare illegalmente nei dintorni, tanto le multe non le paghi e sfrutti lo status diplomatico. Oriana Fallaci non aveva messo piede in quel ristorante quando definì l’Onu “una banda di mangia-a-ufo, una mafia di imbroglioni che ci menano per il naso”. Neppure il segretario generale Kurt Waldheim ci aveva messo piede quando ebbe l’ardire di definire l’Onu “un parco buoi dove relegare ex amici e protetti che non servono più”. Ci avevano entrambi visto giusto.
“Immaginate una terra afflitta da inefficienza, burocrazia kafkiana e miasmi di corruzione” ha scritto Stephen Halper sul Wall Street Journal. “L’immaginazione non è necessaria, siete alle Nazioni Unite. Stipendi incredibilmente lucrativi vengono pagati presso la sede di New York, dove il salario medio di un ragioniere è di 84 mila dollari, mentre un ragioniere non dell’Onu ne prende 41 mila. Un analista di computer si aspetta di ricevere 111 mila dollari rispetto ai 56 mila fuori dalle Nazioni Unite. Un assistente del segretario generale riceve 190 mila dollari; il sindaco di New York è pagato 130 mila. I dati però non riflettono appieno la disparità, poiché gli stipendi delle Nazioni Unite sono esentasse”.
Quando la Carta dell’Onu fu firmata nel 1945, Winston Churchill si disse più che soddisfatto, ma annotò nei suoi diari che il tutto gli sembrava “la premessa di una babele”. Chissà cosa avrebbe scritto o pensato se avesse visto, nel 2015, i festeggiamenti per il settantesimo anniversario del Palazzo di vetro. “Settant’anni e mezzo trilione di dollari dopo: che cosa ha raggiunto l’Onu?” si è appena chiesto il Guardian. “Le Nazioni Unite hanno salvato milioni di vite e potenziato sanità e istruzione in tutto il mondo. Ma sono antidemocratiche e molto costose”. Persino troppo generoso il quotidiano inglese.
Due economisti di Harvard, Ilyana Kuziemko e Eric Werker, in un saggio intitolato “Cooperazione e corruzione alle Nazioni Unite” e pubblicato dal Journal of Political Economy, sostengono che i paesi membri dell’Onu cercano ormai l’elezione per un mandato biennale nel massimo organo di governo del mondo non per esercitare influenza sulla sfera internazionale. Lo fanno per la grana. L’assistenza finanziaria degli Stati Uniti ai paesi in via di sviluppo aumenta del 59 per cento quando ottengono un seggio al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Queste stesse nazioni ricevono anche un otto per cento in più di aiuti dalle agenzie della galassia delle Nazioni Unite e in particolar dall’Unicef, l’agenzia per il sostegno all’infanzia. In media il paese in via di sviluppo si aspetta sedici milioni di dollari in più dagli Stati Uniti e l’assistenza aumenta marcatamente in tempi di crisi: a 45 milioni di dollari da Washington e otto milioni di dollari dal Palazzo di vetro.
Per capire cosa siano diventate le Nazioni Unite bisogna dare un’occhiata alla Commissione economica dell’Onu per l’Europa. Questo sconosciuto organismo, che ha sede a Ginevra e si è annidato come un parassita nei meandri della rete burocratica umanitaria, ha pubblicato un rapporto di 44 pagine offrendo una serie di norme sui peperoni rossi e verdi, mettendo in evidenza le caratteristiche del prodotto per i commercianti alimentari “al fine di evitare muffa o scolorimento”. Nessuno, neppure gli stessi dipendenti, ha un’idea di cosa sia l’Onu.
Nella sola Ginevra, le Nazioni Unite hanno tenuto diecimila incontri in un anno, offerto 632 seminari di formazione e tradotto 220 mila pagine di documenti per annuari, report e documenti di lavoro dell’organizzazione. Cosa sia l’Onu lo spiega Jean-Pierre Lehmann, professore di Economia politica internazionale a Losanna, in Svizzera: “L’Onu è stata una terribile delusione rispetto agli ideali con cui è stata creata. Oggi serve come una miniera d’oro per un sistema occupazionale gonfio”. Quella commissione ginevrina ha 220 dipendenti e un budget di cinquanta milioni di dollari. Nessuno sa a cosa servano. Una delle priorità su cui sta lavorando adesso questa indispensabile agenzia dell’Onu è come permettere alle persone con disabilità visive di guidare le auto elettriche.
L’inconsistenza dell’Onu è impressa in tutti i volti dei suoi segretari generali. L’attuale, Ban ki-Moon, che quando venne eletto dieci anni fa si era definito un “bridge builder”, un costruttore di ponti, e un “armonizzatore”, è soprannominato “Ban-chusa”, Ban il burocrate, tanto per dare una vaga idea del suo eroico carattere. Per altri, è “l’uomo invisibile dell’Onu”. Il “successo” più grande di Ban, ironizzano da più parti, è stato la marcia contro il surriscaldamento globale a New York al fianco di Al Gore.
Trygve Halvdan Lie, il primo segretario, era di sinistra e scandinavo. Svedese anche Dag Hammarskjöld, “il signor H” come lo chiamavano per evitare la pronuncia. Anche lui di sinistra, inventò l’espressione “economia pianificata”. Un aristocratico, figlio di un ministro della Giustizia e membro di una famiglia al servizio dei re di Svezia da cinquecento anni. Alto, sguardo glaciale, senso del dovere luterano, il signor H. era anticolonialista al punto da schierare l’Onu a fianco del satrapo egiziano Nasser durante la crisi di Suez. Sithu U Thant, che gli succedette, quando nel 1967 Nasser gli chiese di togliere i Caschi blu che dieci anni prima “il signor H” aveva messo nel Sinai a tutela del diritto israeliano al transito per lo Stretto di Tiran lo fece, obbligando Israele alla guerra preventiva poi passata alla storia come “dei Sei giorni”. Preside di scuola media divenuto giornalista per sostenere l’indipendenza birmana, U Thant era infarcito del pregiudizio antioccidentale del vecchio militante anticolonialista e aveva un bisogno quasi buddhista di mantenersi imparziale. Poi arrivò Kurt Waldheim, uno spilungone austriaco democristiano con un ricattabilissimo passato durante la Seconda guerra mondiale. Memorabile la risoluzione sotto il suo mandato sul “sionismo come razzismo”. Gli succedette il peruviano Javier Pérez de Cuéllar, aplomb da gentiluomo ma quanto a fatti, pochi. Seguito da Boutros Boutros-Ghali, egiziano, aristocratico, una mummia faraonica, e poi dal ghanese Kofi Annan, studi americani e un matrimonio con una svedese della famiglia Wallenberg. Segretari come papi laici e simboli dell’inutilità delle Nazioni Unite.
L’organizzazione per l’infanzia dell’Onu, l’Unicef, ha fornito una formazione e un percorso di vita migliore per milioni di persone, tra cui l’attuale segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, che da piccolo studiava in una scuola senza tetto, ultimo di otto fratelli, i genitori contadini che raccoglievano il grano. Programmi di sviluppo delle Nazioni Unite sono stati fondamentali nell’aiutare i paesi appena liberati dal dominio coloniale a governare se stessi. Ma i pochi successi dell’organizzazione non riescono a sopperire al suo vero volto: un covo vergognoso di dittature, una burocrazia paralizzante con i suoi istituzionali insabbiamenti, la corruzione e con le politiche antidemocratiche del suo Consiglio di sicurezza.
La spesa annua delle Nazioni Unite oggi è quaranta volte superiore a quella che era nei primi anni Cinquanta, quando nacque con le migliori intenzioni. L’organizzazione comprende oggi diciassette agenzie specializzate, quattordici fondi e un segretariato con diciassette dipartimenti che impiegano 65 mila persone. E’ la più grande burocrazia del mondo. Il suo bilancio ordinario è più che raddoppiato negli ultimi vent’anni, fino a cinque miliardi e mezzo di dollari. Ma questa è solo una piccola parte della spesa totale.
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Il mantenimento della “pace” costa altri nove miliardi all’anno, con i 120 mila uomini delle forze di pace dispiegati soprattutto in Africa. Alcune missioni sono durate più di un decennio. E poi ci sono i contributi volontari dei singoli governi che vanno a finanziare gran parte delle operazioni di soccorso, il lavoro di sviluppo e le agenzie, come l’Unicef. Sono aumentati di sei volte nel corso degli ultimi venticinque anni, fino a trenta miliardi. Senza considerare la Corte penale dell’Aia. Milleduecento persone impiegate all’uopo nella città olandese, un budget annuale di cento milioni di dollari, la seconda spesa dell’Onu dopo quella per le missioni di peacekeeping, per una manciata di processi, qualche appello e tre casi in preparazione. Non esattamente un successo. Human Rights Watch ha accusato l’istituzione di essere “un buen ritiro legale”, più che una effettiva corte penale.
L’Onu è cresciuta così tanto che a volte lavora contro se stessa. I costi del personale rappresentano i due terzi o più delle uscite. Quanto prende il direttore associato di un ufficio delle Nazioni Unite? Il conto lo ha fatto il New York Daily News: 143 mila dollari all’anno, 65 mila dollari di benefit e il rimborso di una parte dei viaggi per tornare nel paese di origine e per l’istruzione dei figli. Per questo Mark Steyn in una memorabile column sul Chicago Sun Times ha definito l’Onu “un jet set umanitario”.
Come ha rivelato una inchiesta dell’ambasciatore Joseph Torsella, il diplomatico americano responsabile per la riforma e il management, nel solo biennio 2010-2011, l’Onu ha speso 575 milioni di dollari in viaggi. Visto che il campus sull’East River dove ha sede il Palazzo di vetro si estende su una superficie di 69 mila metri quadri su cui non cresce un solo albero da frutto o una pianta commestibile, l’Onu ha pensato bene di risolvere il problema del budget per frutta e verdura creando una serie di piccoli orticelli dentro al campus. Pomodori, zucchine, fagiolini, carote e altre verdurine biologiche oggi coltivate nel giardino dell’Onu verranno distribuite tra lo staff o donate a “food banks”. Ci sarebbe da ridere a crepapelle se non fosse tremendamente tragico il livello cui sono scese le Nazioni Unite.
“Il concetto stesso di Nazioni Unite era nobile”, dice al Foglio Joseph Olmert, professore di Scienze politiche alla South Carolina University e fratello dell’ex primo ministro israeliano. “Il problema è che non funziona. La Lega delle Nazioni è stata un fiasco miserabile e l’Onu non è da meglio. Senza contare il doppio standard su Israele, che avviene a spese delle vere tragedie del nostro tempo”. “Considero le Nazioni Unite come una istituzione indegna, perché fu fondata per prevenire il genocidio, mentre è rimasta a guardare senza fare niente di fronte alle guerre e ai genocidi in Ruanda e Darfur” incalza al Foglio il padrino del movimento neoconservatore Norman Podhoretz.
“Se non bastasse, l’Onu ha condotto una campagna senza fine per delegittimare Israele, divenendo la principale fonte di antisemitismo nel nostro tempo. Per questa e altre ragioni, il mondo sarebbe un posto migliore se l’Onu non avesse mai visto la luce”.
Dello stesso avviso Yossi Klein Halevi, intellettuale americano che da qualche anno vive in Israele, collaboratore di New Republic e del New York Times, che ci spiega: “E’ oggi routine all’Onu condannare Israele più di qualsiasi altro paese, inclusa Corea del Nord, Iran, Sudan e Siria. L’Onu è una farsa, e un pericolo per il popolo ebraico”.
Già, Israele, la grande ossessione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Questo organismo sorge in quella Versailles diplomatica che è Ginevra. Nella città lacustre, la presenza del Palais des Nations è massiccia e incombente nella ricchezza della grande storia, il lusso del passato fastoso, il clamore della retorica pubblica e le migliaia di funzionari arrivati dai cinque continenti che costituiscono una folla pittoresca. Trenta sale per le riunioni, ognuna delle quali con materiali e decorazioni provenienti da questo o quel paese membro. La biblioteca custodisce seicentomila volumi. Il bel parco di ventidue ettari fu donato da una famiglia del patriziato ginevrino, i Revilliod de la Rive. Lo fece a una condizione: che vi si continuassero ad allevare quei pavoni che è facile incontrare, quando ci si aggira per il parco alla ricerca dello spirito di Jean-Jacques Rousseau. Bene, in quel Consiglio è entrato a far parte, tanto per citare un simpaticone democratico, Saeed Mortasavi, il pubblico ministero di Teheran che ha perseguitato scrittori e torturato intellettuali, noto come il “macellaio della stampa”. In passato è successo che la Libia ottenesse la presidenza di questo Consiglio o che l’Arabia Saudita, Cuba e lo Zimbabwe, questi modelli di condotta umanitaria, decidessero quali violazioni fossero da condannare.
Sono loro, le dittature o “stati parzialmente liberi”, forti di una maggioranza di 27 membri su 45, ad aver dato mandato alla commissione di Mary McGowan Davis di accusare Israele di “crimini di guerra” lo scorso giugno (e prima c’era stato il ridicolo Rapporto Goldstone). Come spiega Anne Bayefski, direttrice di Human Rights Voices, “Israele guida ogni anno la lista dei paesi più bersagliati da singole inchieste all’Onu, seguito da Siria, Sudan, Somalia, Iran…”. Si capisce allora perché Foreign Policy parla del bisogno di “riportare i diritti umani dentro al Consiglio per i diritti umani”. Ogni volta che nel Consiglio le democrazie hanno sollevato il problema della sharia e dei crimini commessi in suo nome (lapidazioni, amputazioni, esecuzioni, mutilazioni…) gli ambasciatori dei regimi islamici sono riusciti sempre a insabbiare tutto. Sempre a Ginevra c’è un’altra commissione, quella sulla Tortura, che un anno fa è riuscita a mettere sotto inchiesta il Vaticano per gli abusi sessuali, paragonati a una forma di tortura appunto.
“Le Nazioni Unite sono figlie di Franklin e Eleanor Roosevelt, due naïf che non avevano capito che l’Onu sarebbe diventato strumento di tiranni ed estremisti”, dice al Foglio lo studioso di medio oriente Daniel Pipes. Per dirla con lo storico inglese Paul Johnson, “oggi gli amici dei dittatori sono premiati con questi confortevoli posti a New York”. Solo nove paesi (oltre a Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito, Francia, Italia, Canada, Spagna e Cina) contribuiscono per il 75 per cento del budget totale dell’Onu. Ma ormai il Palazzo di vetro è dominato da dittature, oligarchie e satrapie. Non c’è cattivone al mondo che non abbia un posto che conta: Cina, Russia e Yemen hanno la vicepresidenza dell’Assemblea generale; l’Arabia Saudita sta nel comitato per il Disarmo; il Sudan siede nel Legal Committee; Congo e Iran sono membri della commissione sulle Donne; l’Unicef ha come paesi membri Cina, Pakistan e Iran; la commissione per la Prevenzione del crimine ha dentro Bielorussia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi; allo Sviluppo sostenibile ci sono Angola e Libano; al comitato per l’Informazione non potevano mancare Cina, Iran, Kazakistan e Libia.
Il presidente americano Barack Obama ha sempre definito l’Iran “isolato”. Ma all’Onu, Teheran è una rock star. Si è occupato di “diritti femminili” al programma per lo Sviluppo (nel 2009 l’Iran ne è stato presidente), è stato vicepresidente dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, è stato all’ufficio Onu per la Droga e il crimine, nella commissione sulla Prevenzione del crimine e la Giustizia penale, nel board esecutivo dell’Unicef e nella commissione per la Scienza, la Tecnologia e lo Sviluppo e nel “Comitato per l’uso pacifico dello spazio”.
Al Palazzo di vetro i tiranni si distribuiscono anche i premi: il principe saudita Nayef nel 2013 è stato insignito del premio per il suo “lavoro umanitario”; il premio per il “servizio pubblico” è andato al ministero dell’Interno del Libano, nelle mani dei terroristi di Hezbollah; Fidel Castro è stato nominato “eroe mondiale della solidarietà”, il presidente boliviano Evo Morales è “l’eroe mondiale della madre terra” e l’ex presidente della Tanzania, Julius Nyerere, è “l’eroe mondiale della giustizia sociale”. E ci fermiamo qui, per decenza. Il matematico francese Laurent Lafforgue ha commentato che “è come se un Alto consiglio dei diritti dell’uomo decidesse di fare appello ai Khmer rossi per costituire un gruppo di esperti per i diritti umani”.
In tutta la sua storia, il Consiglio di sicurezza si è mosso solo due volte per fermare aggressioni che hanno comportato violazioni di confini nazionali, il tipo di aggressioni, cioè, che statutariamente l’Onu è nata per impedire: in Corea nel 1950 e nel Kuwait fra 1990 e 1991. In entrambi i casi, però, le Nazioni Unite si sono semplicemente rivolte agli Stati Uniti e ai suoi alleati. Nata per prevenire altri genocidi, l’Onu non vanta un bel curriculum: un milione di Tutsi uccisi dagli Hutu in Ruanda nel 1994 mentre i Caschi blu restavano a guardare; diecimila musulmani bosniaci massacrati a Srebrenica quando dovevano essere protetti dalle truppe olandesi sotto egida dell’Onu; 200 mila sudanesi del Darfur sterminati mentre al Palazzo di vetro i burocrati discettavano se fosse o meno un “genocidio”; un milione di iracheni perseguitati da Saddam Hussein che rimpinzava il suo regime con il programma Oil for Food delle Nazioni Unite. E anche qui ci fermiamo, sempre per decenza.
Il brindisi, del luglio 1995, tra Ratko Mladic e Ton Karremans, comandante del contingente Onu preposto alla difesa dell’enclave, che sancì la resa della città e la consegna dei suoi abitanti alle forze militari serbo-bosniache, è una delle più nefande immagini che può stare a fianco di quelle che ritraggono i leader francese e britannico sorridenti a Monaco, mentre consegnano la Cecoslovacchia ad Adolf Hitler. Gli scherani di Mladic si presentarono ai civili di Srebrenica con i Caschi blu avuti dal contingente olandese, così che anche fisicamente i massacratori avevano la divisa dei pacificatori. Per questo le vedove di Srebrenica hanno fatto causa alle Nazioni Unite.
Il genocidio è il “mai più” della comunità internazionale, ma impone l’obbligo di intervento. E l’Onu non interviene mai. A capo della missione dell’Onu in Ruanda, nel 1994, c’era un generale canadese, Roméo Dallaire. Nelle sue memorie, “Shake Hands with the Devil: The Failure of Humanity in Ruanda”, Dallaire racconta che, alcuni mesi prima dell’inizio del genocidio, era riuscito a scoprire i piani di sterminio. Riferì il tutto sia a Kofi Annan, allora sottosegretario generale incaricato di peacekeeping, sia al capo politico della missione Onu in Ruanda, ma la risposta fu allucinante: essere cauti, non divulgare queste informazioni, non disturbare il segretario generale, Boutros Boutros-Ghali, scordarsi ogni tipo di missione preventiva. Più tardi Dallaire chiese rinforzi, ottenendo invece una riduzione del suo contingente. Dopo un tentato suicidio, nel 2000 gli venne diagnosticata la sindrome da stress post traumatico.
Non che le altre agenzie stiano meglio. L’American Enterprise Institute ha messo sotto accusa il World Food Program in un meticoloso dossier. Ovviamente una agenzia simile, con uffici in ottanta paesi e responsabile della distribuzione di cibo a cento milioni di persone ogni anno, non può essere immune da problemi. Ma le sue falle sono ormai comiche e strutturali. In Etiopia, uno dei paesi che più beneficia del programma Onu, soltanto il dodici per cento del cibo arriva a destinazione. In Corea del nord, il dittatore Kim Jong-un storna gran parte dei fondi a favore dei corrotti del regime comunista. Il presidente del Senegal, Abdoulaye Wade, si è scagliato contro la Fao, l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite, definendola un “pozzo di denaro senza fondo” che dovrebbe essere abolita per aumentare la produzione alimentare mondiale. Gli analisti dicono che decenni di abbandono dell’agricoltura da parte di questa agenzia ha lasciato molti paesi con poco cibo per nutrire la loro gente. “C’è stato un fallimento istituzionale molto profondo su come risolvere i problemi alimentari”, ha dichiarato Peter Timmer, studioso della Stanford University che studia la sicurezza alimentare. La Fao, con sfavillante sede a Roma (e altre 130 sedi nel mondo), è diventata il bersaglio di pesanti critiche. Una revisione indipendente delle sue politiche ha rivelato che l’agenzia ha perso la fiducia dei donatori, che hanno costantemente ridotto i finanziamenti negli ultimi dieci anni. “La Fao è oggi alla deriva”, secondo la relazione del 2007 di un gruppo di esperti esterni.
La prestigiosa rivista scientifica inglese Lancet ha pubblicato un rapporto clamoroso contro l’agenzia Onu di aiuti all’infanzia, Unicef, che sarebbe diventata “uno dei maggiori ostacoli alla sopravvivenza dei bambini nei paesi in via di sviluppo”. Da dieci anni l’Unicef finanzia progetti in difesa dei “diritti del bambino”, invece che investire sulla sopravvivenza dell’infanzia. Il linguaggio dei diritti umani significa poco per un bambino nato morto, per un neonato che muore di polmonite o per un ragazzino disidratato dalla carestia.
L’Unhcr, l’agenzia Onu per i rifugiati, ha svolto un ruolo positivo in molte parti del mondo. Ma negli anni, complice anche la politica delle donazioni esterne, è diventata una sorta di guardiana delle politiche di immigrazione nel mondo. L’Unhcr decide chi è “rifugiato” e chi no, arrogandosi un potere immenso, ideologico, aleatorio. Nel campo profughi di Tug Wajalle, in Somalia, nessuno ha mai saputo con precisione quanti fossero i veri profughi etiopi e quanti, invece, i somali che fingono di essere rifugiati dalla vicina Etiopia per accaparrarsi il cibo passato dall’Alto commissario dell’Onu per i profughi (Unhcr).
Barbara Harrell-Bond, fondatrice del Refugee Studies Center dell’Università di Oxford, ha scoperto che l’Unhcr in Uganda e Kenya ha imposto lavoro non retribuito ai rifugiati confinati nei campi e non è riuscita a proteggere le donne dalle mutilazioni genitali e dalla violenza domestica.
Nel libro “Rights in Exile”, scritto assieme a Guglielmo Verdirame, Harrell-Bond spiega come la gestione dei campi profughi dell’Onu sia un disastro e i diritti civili, politici, economici, sociali e culturali sono costantemente violati anche a causa della struttura e della burocrazia onusiana. I profughi afghani nei campi Unhcr in Pakistan hanno subito i diktat degli islamisti, in particolare per l’assistenza in forma di istruzione e di opportunità di lavoro offerte dalle Nazioni Unite alle donne. Il livello di alfabetizzazione in quei campi è stato del 60 per cento tra i maschi rifugiati e del sei per cento tra le ragazze. “Culture” è la parola magica utilizzata dall’Unhcr come giustificazione per spiegare questo mancato rispetto dei diritti delle donne. Oltre sette milioni di rifugiati nel mondo si ritiene vivano in campi Unhcr per una durata di dieci anni e persino per alcune generazioni. Come ha scritto Merrill Smith, “condannare le persone che fuggono dalla persecuzione a ristagnare per il resto della loro vita è inutile, dispendioso, ipocrita, controproducente, illegale e moralmente inaccettabile”.
Ma di questo, l’Unhcr non parla.
La succursale palestinese dell’Unhcr, Unrwa, è accusata da anni di collusione con il terrorismo antisraeliano. Di giorno insegnante premuroso per le Nazioni Unite, di notte capo militare di Hamas. E’ il caso di Issa al Batran, che ha gettato enorme discredito sull’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Il suo codice Unrwa era il “2Z9558”. Awad al Qiq aveva alle spalle una lunga carriera come insegnante di Scienze in una scuola dell’Unrwa. Ma era anche il principale fabbricatore di bombe per il jihad islamico.
La credibilità dell’Undccp, l’Agenzia antidroga delle Nazioni Unite con sede a Vienna, è minata da anni di scandali. Dal 1997 al 2001 l’agenzia è stata diretta dall’italiano Pino Arlacchi, memorabile, che promosse la brillante idea di finanziare lo sradicamento delle colture di oppio afghano in cambio di incentivi economici. I Talebani ovviamente si presero i soldi e continuarono a produrre oppio. Dei fallimenti dell’Agenzia atomica, l’Aiea, è perfino inutile parlare. L’Unesco, l’Agenzia Onu per la cultura, è accusata di piegare la sua celebre lista dei tesori dell’umanità a fini commerciali. E mentre l’Isis da mesi fa saltare in aria ogni giorno qualche tesoro del passato, da Parigi l’Unesco emette indignati comunicati.
Il nepotismo è dilagato al vertice dell’Onu. Il figlio dell’ex segretario Kofi Annan, Kojo, era a libro paga della società che avrebbe dovuto controllare il funzionamento del programma iracheno Oil for Food, mentre la figlia dell’attuale segretario, Ban Hyun Hee, lavora per l’Unicef. Il genero del segretario, Siddarth Chatterjee, da quando il suocero è diventato segretario, è stato prima nominato capo dello staff dell’Onu a Baghdad, uno dei teatri più importanti di impegno delle Nazioni Unite. In seguito ha battuto un centinaio di candidati per la guida di una ricchissima agenzia in Danimarca che gestisce appalti miliardari, l’Unops. Subito dopo l’Unicef ha trasferito la moglie nonché figlia di Ban Ki-moon, in Danimarca. Il nepotismo dilaga anche fra i membri delle commissioni. Richard Falk, l’inviato dell’Onu nei Territori palestinesi, è sposato con Hilal Elver, che è inviata Onu per il diritto al cibo. Storie simili abbondano al Palazzo di vetro.
Come rivela un rapporto dell’Heritage Foundation, il numero di alti dirigenti dell’Onu è schizzato alle stelle: erano 143 nel 2006, sono saliti a 193 nel 2014. Un aumento del 35 per cento sotto Ban ki-Moon, che sale al 50 per cento nella sola città di New York. C’è stato anche un italiano, Nicola Baroncini, impiegato al programma per lo sviluppo dell’Onu (Undp), a denunciare il nepotismo interno alla burocrazia onusiana. Baroncini aveva infatti scoperto che il suo posto sarebbe andato alla figlia del responsabile della missione dell’Onu nella Repubblica democratica del Congo, il britannico Alan Doss. E quando c’è nepotismo di solito c’è anche corruzione.
Per dirla con l’ex senatore americano Larry Pressler, “all’Onu regna una cultura da Terzo mondo: sei al potere? Ti arricchisci saccheggiando il paese”. Quando James Wasserstrom, un alto ufficiale anticorruzione presso le Nazioni Unite in Kosovo, ha denunciato uno schema che ha coinvolto tangenti del valore di cinquecento milioni di dollari a funzionari del Kosovo e a membri anziani della missione delle Nazioni Unite, il suo passaporto è stato confiscato e la sua fotografia affissa agli ingressi degli uffici della missione Onu per negargli l’accesso ai locali. Alla fine la battaglia legale gli ha dato ragione, ma la carriera di Wasserstrom era ormai distrutta. Il presidente Barack Obama ha convertito in legge un disegno di legge, il primo del suo genere, che costringe il Dipartimento di stato degli Stati Uniti a ritirare il 15 per cento dei finanziamenti americani da qualsiasi agenzia delle Nazioni Unite che non protegge gli informatori. Questa è una buona notizia, perché l’Onu è famoso per non proteggere gli informatori.
Il progetto per il Government Accountability con sede a Washingtion ha scoperto che l’ufficio Etica delle Nazioni Unite, che si occupa di ricevere i ricorsi per la protezione da informatori delle Nazioni Unite, non è riuscito a proteggere oltre il 98 per cento di coloro che si sono avvicinati a quell’ufficio per aiutare l’Onu tra il 2007 e il 2010. Ban Ki-moon ha sciolto il Procurement Task Force delle Nazioni Unite che era stato istituito dal suo predecessore, Kofi Annan, per indagare sulle irregolarità finanziarie all’interno dell’organizzazione. La task force aveva rivelato livelli sbalorditivi di corruzione e furto all’interno dell’organizzazione. Si è scoperto che quasi la metà dei 350 mila dollari destinata a una stazione radio delle Nazioni Unite a Baghdad era stata utilizzata per pagare i prestiti personali e le carte di credito. In Somalia, le agenzie delle Nazioni Unite si voltano dall’altra parte quando i partner locali rubano cibo e altri aiuti.
Coloro che osano parlare contro tali irregolarità sono castigati, ignorati, retrocessi, o licenziato. Quando Georges Tadonki, il capo dell’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari nello Zimbabwe, ha lanciato l’allarme su un possibile epidemia di colera nel 2008, è stato ammonito, sottoposto a un’indagine, e informato che il suo contratto non sarebbe stato rinnovato.
Il mantenimento della pace è finito in una trappola cinica. Come ha rivelato una inchiesta dell’Office of Internal Oversight Services, nel solo anno 2007 di 1,4 miliardi di dollari, elargiti per le missioni di pace, il quaranta per cento (619 milioni) era finito in movimenti di corruzione. Claudia Rosett, della Fondazione per la difesa delle democrazie, ha detto che la corruzione ormai investe tutti i tipi di contratto. La rete televisiva Cbs ha scoperto che centinaia di milioni di dollari del bilancio Onu sono scomparsi, inghiottiti in un buco nero di sprechi, cattiva amministrazione, corruzione. Impiegati mai esistiti, stipendi fantasma, lavori mai fatti. Se in Somalia 369 mila dollari sono stati pagati per servizi di distribuzione di carburante mai previsti, un direttore dell’agenzia che aiuta i rifugiati palestinesi si è tenuto 100 mila dollari dell’agenzia su una banca privata e ha omesso di comunicare un interesse personale in un progetto d’irrigazione. E spesso queste missioni umanitarie finiscono per coprire i crimini di guerra delle parti in campo. Aicha Elbasri, che ha servito come portavoce per la missione delle Nazioni Unione Unite in Darfur (Unamid), ha rivelato che tra l’agosto 2012 e l’aprile 2013 la missione ha volutamente sottostimato e nascosto gli attacchi delle forze sudanesi contro i civili.
Paesi potenti forniscono i soldi, gli Stati Uniti il finanziamento di un quarto del budget e i paesi più poveri, soprattutto di Africa, Asia meridionale e America Latina, forniscono le truppe. E i soldati, quasi sempre scarsamente addestrati e selezionati, sono stati responsabili di abusi sessuali in tutto il mondo. La ong Human Rights Watch ha accusato la missione delle Nazioni Unite nella Repubblica democratica del Congo di essere “un modello di sfruttamento sessuale di donne e ragazze congolesi”. Nel 2011, è uscito sui giornali uno dei titoli meno rassicuranti di tutti i tempi: “Accuse di abusi sessuali contro i Caschi blu in declino nella Repubblica democratica del Congo e in Liberia”. In declino… Il rapporto del principe Zeid al Hussein, “A Comprehensive Strategy to Eliminate Future Sexual Exploitation and Abuse in United Nations Peacekeeping Operations”, parla di Caschi blu coinvolti in scandali sessuali in Bosnia, Kosovo, Cambogia, Timor Est, Burundi e Africa occidentale. In Africa si parla ormai di “peacekeepers babies”, i bambini illegittimi dei “soldati umanitari”.
Lo scorso giugno l’Onu ha iniziato a proporre test del Dna proprio per cercare i padri dei bambini nati dai rapporti sessuali dei Caschi blu con le donne dei paesi nei quali si trovavano ad operare. I soldati umanitari hanno preteso abitualmente prestazioni sessuali in cambio di cibo, denaro, vestiti, telefonini e profumi. Un dossier interno segnala che le denunce di abusi sessuali sono state 480 nel periodo compreso fra il 2008 e il 2013. Un terzo dei casi vede coinvolte donne non ancora diciottenni. Scandali di abusi sessuali e pedofilia di massa hanno colpito le Nazioni Unite a partire dai primi anni Novanta, quando le forze di pace in Cambogia furono accusate di abusi sessuali su ragazzine. Allora l’alto funzionario delle Nazioni Unite in Cambogia, Yasushi Akashi, minimizzò le accuse dicendo: “I ragazzi sono ragazzi”. L’Onu ha talmente presente la piaga del sesso dei suoi inviati umanitari da aver distribuito ai Caschi blu un opuscolo dal titolo: “Proteggiti dall’Hiv/ Aids”. “E’ il sesso occasionale a occupare gran parte del vostro tempo quando non siete di servizio? E’ questa la vostra maniera principale per combattere lo stress?”, chiede il libretto di trenta pagine. Un vademecum del Casco blu amatore su come evitare rischi di contagio.
L’ultima epidemia di Ebola ha rivelato le falle di un’altra celebre agenzia dell’Onu, l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Il Wall Street Journal ha elencato tutti i fallimenti del sistema. Nel 1980, l’Oms ha sottovalutato la portata dell’epidemia di Aids ed è stata afflitta da lotte intestine e scarso coordinamento. Nel 2009 l’organizzazione è stata a dir poco lenta nell’affrontare l’influenza pandemica H1N1. Un’inchiesta interna pubblicata nel 2011 ha accusato l’Oms di aver commesso errori cruciali, tra cui la mancanza di trasparenza, la scarsa comunicazione esterna, i conflitti di gestione, e una definizione “inutilmente complessa” di pandemia. Nel 2010 l’Organizzazione mondiale della sanità si è trovata ad Haiti a dover gestire un’epidemia di colera mortale inavvertitamente introdotta da Caschi blu del Nepal intervenuti dopo il terremoto. Prove schiaccianti hanno dimostrato che i soldati delle Nazioni Unite hanno portato la malattia dal loro paese d’origine. Sono stati 8.774 gli haitiani morti di colera.
La malattia si è rivelata molto più veloce della burocrazia dell’Oms e ha contagiato Repubblica Dominicana, Cuba e Messico, uccidendo migliaia di persone. Si arriva così a Ebola, “una catastrofe evitabile” secondo il microbiologo belga e medico che ha coscoperto il virus nel 1976, Peter Piot, il quale ha accusato l’Onu di non aver agito in tempo per bloccare la malattia.
Le prime voci a favore di una riforma del Palazzo di vetro risalgono al 1948. L’Onu non si era ancora riunita e gli stati membri discutevano già su come cambiarla. Nelle parole di Charles Lichtenstein, ambasciatore americano negli anni Ottanta, “l’Onu era già un treno fuori controllo”.
Tanti auguri, Palazzo del fango!