“Il multiculti porta alla guerra civile”
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Parla Gurfinkiel, fondatore dell’Istituto Rousseau. “La banlieue è un mini stato islamico. Al venti per cento dei musulmani francesi piace l’Isis”. La Francia riscopra l’identità cristiana. “Siamo indifferenti all’antisemitismo”
di Giulio Meotti | 27 Novembre 2015 ore 19:59
Roma. “A Raqqa, la capitale dello Stato islamico, i francesi sono di casa: la seconda lingua parlata dopo l’arabo è il francese, per le strade l’Isis semina il terrore e i francesi sono i peggiori, picchiano e minacciano le donne se il loro volto non è nascosto dal niqab o se fanno rumore con le scarpe. Il rumore dei tacchi di una donna è considerato peccato. Hanno lasciato la Francia per la Siria percepita come la loro terra promessa. A Raqqa, i loro figli si trasformano in mostri. Hanno passaporti francesi, torneranno un giorno. Quale sarà la Francia di questi bambini cresciuti tagliando teste in nome di Allah?”. E’ tratto da un racconto, pubblicato dal Figaro Magazine, in cui la giornalista Rachida Samouri si è infiltrata a Seine-Saint-Denis fra i francesi che tifano Isis. Parigi ha commemorato le 130 vittime degli attentati. “Hanno ucciso nel nome di una causa folle e di un Dio tradito”, ha detto il presidente francese, François Hollande. “Ci hanno colpiti perché siamo una ex potenza coloniale, perché siamo in guerra con gli islamisti in Africa, perché siamo considerati ‘filoebraici’, perché ‘opprimiamo’ i musulmani con la legge sul velo, perché eravamo un obiettivo facile, perché il Bataclan per gli islamisti era espressione di una ‘satanica’ cultura che dovrebbe essere debellata”. Così Michel Gurfinkiel, uno dei maggiori intellettuali ebrei di Francia, in questa lunga intervista al Foglio sintetizza la strage del 13 novembre. Classe 1948, direttore per vent’anni del settimanale Valeurs Actuelles (oggi ne è vicepresidente), fondatore e direttore dell’Istituto Rousseau di Parigi, nel board della rivista Commentaire e firma del Wall Street Journal, autore di saggi fortunati come “Un devoir de mémoire” e “Le Retour de la Russie”, Michel Gurfinkiel non ritiene che quello del 13 novembre fosse terrore, ma guerra.
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“I terroristi erano musulmani, cittadini francesi o belgi di origine nordafricana, e le loro vittime erano prevalentemente etnico-francesi. Alcuni media hanno tentato di nascondere questi fatti, mettendo in evidenza la presenza al Bataclan o in altri luoghi di alcune persone di discendenza africana o nordafricana. Ma basta guardare i volti delle vittime per capire che c’è un elemento di genocidio in questa strage di massa. C’è anche il disagio che la guerra al terrorismo possa trasformarsi in una sorta di guerra civile tra l’etnia francese e i musulmani francesi”. La demografia è dalla parte dell’islam: “La comunità musulmana francese è salita dal cinque per cento nel 1997 al nove per cento nel 2014. Ma questo è soltanto un aspetto. Ci sono città, borghi rurali e aree già a maggioranza islamica. In ambiente giovanile la percentuale è persino superiore. Un quinto del totale dei cittadini francesi sotto i 24 anni è musulmano. Questi fattori demografici, geografici e generazionali danno l’idea di un conflitto fratricida. Nel dipartimento di Seine-Saint-Denis nella periferia nord di Parigi, il 30 per cento della popolazione e circa il 50 per cento dei giovani sono musulmani. Poiché la guerra, compresa la guerra civile, è combattuta da giovani (di solito giovani uomini) in tarda adolescenza e nei primi venti anni, il rapporto fra non musulmani e musulmani non è più di uno a nove, ma di uno a uno”.
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Da qui un’altra domanda: quanto è centrale l’islam radicale nella vita dei musulmani francesi? “Secondo un’indagine pubblicata da Fondapol (Fondazione francese per l’innovazione politica), i musulmani francesi sono divisi in tre gruppi: ‘Osservanti’, ‘credenti’ e ‘cittadini francesi di origine musulmana’. Il primo gruppo, influenzato dal wahhabismo e da altri movimenti fondamentalisti, le cui moschee sono finanziate dall’Arabia Saudita o dal Qatar, è cresciuto dal 36 per cento del 2001 al 42 per cento nel 2014. Il secondo gruppo, che sostiene una forma di compromesso tra islam e il modo di vita francese, è sceso dal 42 per cento del 2001 al 34 per cento nel 2014, mentre il terzo gruppo, che si identifica con la cultura francese e che tende a essere più positivo nei confronti dei non musulmani, è sceso dal 25 per cento del 2007 al 21 per cento nel 2014. Nel complesso, il fondamentalismo è chiaramente in crescita tra la maggioranza dei musulmani in Francia”.
Da qui la nascita di una società islamica parallela in Francia. Il documento “Banlieue de la République”, commissionato dall’influente Institut Montaigne, ha rilevato che Seine-Saint-Denis e altre periferie stanno diventando “società islamiche separate” dove la sharia, la legge islamica, sta soppiantando il diritto civile francese. Fabrice Balanche, studioso di islam all’Università di Lione, li ha chiamati “mini stati islamici”. “Può portare a una separazione dai non-musulmani, come è spesso il caso nei quartieri a maggioranza musulmana, trasformati in ‘no go zone’ in cui neanche la polizia entra”, ci dice Gurfinkiel. “E incoraggia il terrorismo. Un rapporto Icm Research pubblicato nel 2014 rende noto che il 19 per cento dei musulmani francesi ha una visione ‘positiva’ o ‘molto positiva’ dell’Isis. Tra quelli sotto l’età di ventiquattro anni, la cifra è ancora più elevata: il 27 per cento. L’obiettivo degli attacchi terroristici è destare sospetti e ostilità tra musulmani e non musulmani e di conseguenza, una maggiore identificazione con l’Isis, rendendo la prospettiva di una spaventosa guerra civile sempre più realistica. Il calcolo dei jihadisti è che la Francia non tollererà tale esito, ma cederà alle loro richieste, ritirando le truppe dall’Africa e dal medio oriente”. In questo quadro, gli ebrei fanno le valigie. Alcuni giorni fa Birthright, organizzazione ebraica che prepara viaggi di ebrei in Israele in vista di una possibile aliyah (emigrazione), ha diffuso i dati: 2.500 richieste dalla Francia quest’anno, erano 1.100 nel 2014 e 98 nel 2013. Un aumento del 2.400 per cento. “Mentre il governo e la classe politica hanno espresso la propria preoccupazione, e la protezione della polizia su larga scala è stata fornita alle sinagoghe e altri luoghi pubblici ebraici, molti ebrei si sono chiesti se l’opinione pubblica non fosse in realtà indifferente, o pronta ad accettare l’antisemitismo islamico e il terrorismo, come risultato di una presunta mancanza di volontà di Israele di venire a patti con i palestinesi”, ci dice Gurfinkiel. “I massacri di Charlie Hebdo hanno portato a manifestazioni in tutta la Francia: naturalmente, anche le vittime dell’Hyper Casher erano citate, ma gli ebrei sapevano che il supermercato da solo non avrebbe suscitato una reazione. Il nuovo stato d’animo che sta emergendo dal 13 novembre sembra alleviare alcuni di questi timori e c’è più comprensione per gli ebrei. Ma è probabile che l’emigrazione ebraica francese, verso Israele o l’America del Nord, non si placherà. Jules Renard ha scritto che è difficile insegnare ai gatti di inseguire soltanto i topi e lasciare in pace i canarini”.
Per Michel Gurfinkiel, la risposta deve essere culturale: “La resilienza francese può essere più forte del previsto. I francesi stanno imparando di nuovo, dalle loro ferite, l’importanza dell’identità nazionale. Serve una rivoluzione culturale: l’abbandono del multiculturalismo, l’orgoglio cristiano, la riabilitazione dei valori della famiglia. La nozione stessa di una resa davanti all’islam diventerà ripugnante, quali siano i costi”.
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