Al bar Rosati a mia insaputa
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Mio nonno Enrico e suo fratello Carlo aprirono il locale di Piazza del Popolo. Ci passarono nazisti e americani, ma a loro fecero più paura gli artisti della Dolce vita
di Fabrizio Cicchitto | Agosto 2015 ore 10:05
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“ll bar Rosati è stato per me una fondamentale scuola di vita”
Diversamente da altri che hanno affermato di non dovere nulla ai loro nonni, io devo confermare che ad essi devo moltissimo. Io sono nato nel fatidico 1940. Devo moltissimo ai miei nonni e a mia madre (mio padre, che era un medico, fu fatto prigioniero dagli inglesi, e tornò in Italia nel 1945), perché riuscirono a fare una cosa straordinaria e incredibile: resero per me gli anni dal 1943 al 1945 come un periodo incantato in cui gli echi della guerra mi arrivavano attutiti, filtrati, idealizzati. La mia vita si svolgeva fra via Emanuele Gianturco, dove abitavo, Villa Borghese e Villa Strofen dove mia nonna e mia madre mi portavano a passeggiar. Ma il centro di tutto era il bar Rosati di piazza del Popolo, fondato da mio nonno Enrico e da suo fratello Carlo, il loro capolavoro, dopo la rottura con il fratello maggiore con il quale avevano fondato Rosati a via Veneto.
Mio nonno Enrico e suo fratello, Carlo, erano due personaggi straordinari. Essi si erano divisi compiti e ruoli: mio nonno Enrico svolgeva il ruolo della rappresentanza pubblica del locale, parlava con grande gentilezza e pacatezza con tutti, dai clienti ai dipendenti, ai vigili urbani. Invece mio zio Carlo era il regista invisibile ma fondamentale: da lui dipendeva la gelateria e la pasticceria, cioè la produzione del locale, che era di altissima qualità.
In seguito ai bombardamenti anglo-americani, a Roma di sera vigeva il coprifuoco. Di conseguenza mio nonno e mia nonna erano costretti a chiudere il negozio nel tardo pomeriggio, e quindi tornavano a casa. Essi e mia madre convertirono quella situazione negativa in qualcosa di positivo. Quasi ogni sera, a casa mia, si svolgeva una specie di teatrino.
I miei mettevano in piedi una sorta di spettacolo utilizzando il lungo corridoio di casa, illuminato solo con le candele, mentre porte e finestre erano serrate: io correvo felice e spensierato nella mia automobiletta a pedali e a ogni tappa c’erano o mia madre, o mia nonna, o mio nonno che mi imboccavano avendo in mano un piatto e una forchetta. Così essi mi costruirono intorno una sorta di mondo incantato e fiabesco malgrado vivessimo nel pieno della guerra, i cui echi mi arrivavano, ma filtrati e attutiti dalla dolcezza e dalla fantasia dei miei famigliari che intorno a me avevano costruito un altro mondo, un mondo morbido e gentile. Così quasi ogni mattina con la paletta e il secchiello mia madre mi portava a Villa Borghese, e grazie all’amicizia con il cardinal Marmaggi di mia zia suora, godevamo del privilegio di poter accedere da Villa Borghese a Villa Strofen, di proprietà del governo francese e allora requisita visto lo stato di guerra. Lì, percorrendo con mia madre i viali di quella villa straordinaria, vivevo davvero in un mondo incantato, fra alberi e fiori. Quel mondo era popolato da pochissime persone, fra loro legate da una sorta di complicità per il privilegio che avevano di poter passeggiare in un luogo così affascinante, una specie di paradiso in terra. Ma i veri abitanti, anzi i padroni di quei viali, di quei cespugli, di quegli alberi erano gli scoiattoli: io ne seguivo i movimenti velocissimi, la comparsa e la scomparsa da un ramo all’altro. A occhi spalancati attendevo sempre che da un momento all’altro arrivassero anche gli gnomi e gli elfi delle favole che la sera mi raccontava mia madre. Quel paradiso in terra però veniva sempre più spesso turbato dell’irruzione in esso dei riflessi della guerra. Il suono delle sirene che segnalavano l’arrivo dei bombardieri anglo-americani rompeva l’idillio e provocava l’irruzione della tragica realtà in quel mondo sospeso e trasognato. Allora c’era una corsa lunga e affannosa, mano nella mano di mia madre, da Villa Borghese a Borghetto Flaminio, dietro il ministero della Marina, dove esisteva una specie di rifugio, che non avrebbe resistito a una bomba a mano. Fino ai morti di San Giovanni nessuno a Roma visse in modo troppo drammatico l’allarme e la corsa al rifugio. Una volta arrivato nel rifugio la mia attenzione veniva attirata da molte sensazioni. C’era un forte odore di muffa. Dentro il rifugio si accalcava una umanità ansiosa e solidale, che si interrogava sul presente e sul futuro. All’inizio, nei primi mesi, nel rifugio nessuno parlava di politica. Poi, con il passare dei giorni e dei mesi qualcuno cominciò a bassa voce e poi sempre più esplicitamente a esprimere interrogativi sulla penuria di cibo, di risorse e sull’andamento stesso della guerra. In una prima fase non appena si sentiva qualche voce critica subito essa veniva rintuzzata dalle repliche rabbiose e piccate di qualche fascista militante. Ma da un certo momento, dalla fine del ’42 in poi, le voci di coloro che contestavano divennero dominanti. Negli ultimi tempi, nel ’43, all’interno del rifugio prevaleva un’atmosfera fortemente critica verso il regime.
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L’atmosfera che dominava in quel periodo il bar Rosati di piazza del Popolo era spettrale e lugubre. Gli avventori non mancavano ma erano tutt’altro che allegri e loquaci. In un suo notiziario Radio Londra, che tutti ascoltavano di nascosto, aveva detto che il bar Rosati era popolato da spie naziste e fasciste.
L’unico episodio gentile che avvenne in quel periodo mi coinvolse personalmente. Allora ero un bambino con dei capelli castano chiaro-biondi e con dei boccoli. Un giorno vidi un ufficiale della Wehrmacht avvicinarsi a mio nonno e tirare fuori da una tasca della giacca una foto. Poi l’ufficiale mi indicò. Calò il silenzio e tutti mi guardarono. Dopo un attimo di esitazione mio nonno mi chiamò. L’ufficiale tedesco mi sorrise, mi mostrò la foto: era quella di un bambino biondo della mia stessa età. La somiglianza fra noi due era impressionante. In un italiano scolastico, ma perfetto, l’ufficiale della Wehrmacht mi rivolse la parola: “Mi ricordi moltissimo mio figlio che non so se rivedrò. Anzi è quasi sicuro che non lo rivedrò più. Ho chiesto a tuo padre di poterti dare un bacio sulla fronte. Vuoi?”. Ero intimidito ma non avevo paura. Tutti ci guardavano. Feci un cenno di assenso. L’ufficiale era elegante, serio, commosso. Lo guardai dal basso in alto e sporsi in avanti la testa. Egli si chinò, mi mise le mani sulle spalle e mi baciò sulla fronte. “Grazie”, disse a me e a mio nonno. Intorno c’erano tutti i camerieri del negozio, le commesse, alcuni clienti. Non volava una mosca. L’ufficiale si raddrizzò, fece un saluto militare e uscì. In un silenzio assoluto l’assembramento si sciolse e ognuno tornò al suo lavoro.
Quello fu l’unico episodio gentile in un periodo durante il quale la paura e la diffidenza congelavano tutti i sentimenti. La pietà era davvero morta anche a Roma come dimostrò sia quel tragico errore politico che fu l’attentato di via Rasella (una pazzesca forzatura del Pci per far saltare il disegno vaticano di “Roma città aperta”) e la disumana, ma prevedibile, risposta nazista. A Roma in quei mesi fu la chiesa cattolica, con i suoi preti, le sue monache, i suoi conventi a esprimere valori di solidarietà e di umanità.
Il Vaticano e i conventi davano rifugio agli antifascisti di ogni colore politico: in quel modo la chiesa forniva le sedi per avviare un autentico laboratorio politico per il futuro. Quando la ieratica figura di Pio XII si recò nel quartiere di San Lorenzo martoriato dal bombardamento “alleato” e la sua tonaca bianca si macchiò del sangue dei morti e dei feriti, Roma misurò e apprezzò il fatto che l’unica autorità rimasta in campo vicina alla gente erano il Pontefice e la chiesa. Il Pci, come dimostrò via Rasella, puntò su tutta un’altra operazione, ma essa produsse esiti catastrofici.
Ho potuto assistere all’ingresso a Roma degli anglo-americani perché le avanguardie della Quinta armata si fermarono in Via Azuni, passato il ponte sul Lungotevere. Proprio sotto casa mia, esse fecero una sosta per consumare il rancio. Ricordo ancora i soldati seduti per terra, con accanto zaini, fucili ed elmetti. Davanti a loro c’era una folla festosa, plaudente e variopinta. In primissima fila ragazze di tutti i tipi.
Il bar Rosati cambiò completamente aspetto rispetto alla lugubre atmosfera dell’occupazione nazista. Dalla mattina fino alla notte c’erano soldati americani che offrivano da bere a tutti, ovviamente in primo luogo a se stessi, e che scherzavano, gridavano, si ubriacavano e che, quando esageravano, venivano duramente bastonati dai militi della military police. “Borsari neri” e “segnorine” dominavano la scena.
In mezzo a quel casino mio nonno era una sorta di “dominus” gentile e affabile che, senza forzature, esercitava un ruolo di cortese gestore dell’ordine e di una relativa tranquillità.
Il 25 aprile del 1945 fu vissuto in modo drammatico a casa mia. “E’ la fine delle dittature. Finiscono tutte nel sangue” fu il commento di mio nonno. Invece piazzale Loreto e le sue immagini provocarono fra i miei raccapriccio e orrore. Mio nonno, mia nonna, mia madre non si davano pace per il fatto che Claretta Petacci fosse stata uccisa e poi esposta in quel modo. Poi, dal 1946 in poi, lo scontro fra comunisti e anticomunisti coinvolse fortemente i miei. Essi ritenevano che una vittoria del comunismo avrebbe eliminato sia la libertà di parola sia la proprietà privata. L’aspetto più paradossale fu costituito dagli effetti disastrosi prodotti dalla campagna elettorale fatta dai comunisti del quartiere. Furono affisse nel quartiere Flaminio delle liste nominative di proscrizione nelle quali c’era di tutto, ex fascisti, monarchici, democristiani, e specialmente le persone notoriamente benestanti: c’era anche il nome di mio nonno. La mia famiglia era sbigottita e impaurita. Il massimo di proselitismo all’incontrario, però, fu svolto dai portieri del nostro palazzo, moglie e marito accesamente comunisti. Ebbene costoro quasi ogni giorno, nella fase precedente alle elezioni del 18 aprile, invitavano a via Gianturco amici e compagni ai quali giù dalla strada indicavano con il dito gli appartamenti da espropriare: i condomini seguivano raccapricciati la scena attraverso le persiane socchiuse. Credo che nel mio palazzo, a parte i portieri, anche i cani e i gatti votarono per De Gasperi e per la Dc.
Nel bar di Piazza del Popolo mio nonno era una sorta di pater familias, rispetto ai dipendenti interveniva per rimetter pace fra moglie e marito, prestava, si fa per dire, i soldi per un’operazione chirurgica, o per qualche emergenza famigliare, riceveva confidenze e sfoghi. Il vero punto debole di mio nonno riguardò negli anni Cinquanta e Sessanta il suo rapporto con i pittori e gli artisti squattrinati che avevano due punti di riferimento, il bar Rosati a piazza del Popolo e la trattoria Menghi in via Flaminia. Fra quei pittori c’era il meglio della nuova pittura italiana, da Franco Angeli a Pietro Consagra, a Renzo Vespignani, all’uomo di teatro Fabio Mauri, a molti altri. I gestori della trattoria Menghi furono abili e lungimiranti: offrivano pranzi e cene a credito, in cambio di quadri.
Invece mio nonno vedeva quei pittori estrosi e trasgressivi come il fumo agli occhi, dava indicazione ai camerieri affinché limitassero a uno o a due i tavolini che occupavano per ore consumando solo qualche caffè e una bottiglia d’acqua minerale. Un pezzo della storia e della cultura romana si dipanò fra il bar Rosati e la trattoria Menghi ma noi non ce ne rendemmo conto e neanche provammo a stabilire un autentico rapporto umano con qualcuno di quei personaggi geniali e imprevedibili. A ripensarci mi mordo le mani. Comunque grazie a mio nonno, il bar Rosati è stato per me una fondamentale scuola di vita che mi è servita moltissimo quando dai diciotto anni in su è prevalsa su tutto la passione politica. Agli imbecilli che parlano di “professionisti della politica che non hanno mai lavorato in vita loro” dedico queste considerazioni finali.
In primo luogo, se non avesse prevalso in me la passione per la politica che mi portò a iscrivermi al Partito radicale a 17 anni e al Psi a 19 e poi a fare il sindacalista e il dirigente del Psi e avessi proseguito il lavoro di mio nonno oggi sarei miliardario. In secondo luogo chi fa davvero e seriamente politica lavora dalla mattina presto fino a sera tardi: chi non lo fa è un parassita, prodotto esemplare a destra e sinistra di questa scombinata Seconda Repubblica che adesso va per la terza. E’ francamente disgustoso che a straparlare di “professionisti della politica” e di “politici che non hanno mai lavorato in vita loro” sono spesso quelle signorine e quei signorini che a un certo punto sono diventati imprenditori proprio grazie alla politica. Mi fermo qua perché sto andando fuori tema, e tutto ciò non c’entra con i miei nonni.
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