Contro i finti paladini della morale
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Da Crocetta a Marino. Professionisti dell'antimafia e professionisti del moralismo. Storia di due grandi imposture culturali.
di Giovanni Fiandaca | 27 Luglio 2015 ore 13:48
Nel contesto di interviste rilasciate dopo le dimissioni da assessore alla sanità del governo Crocetta, Lucia Borsellino ha espresso due concetti degni di nota che vale la pena riprendere. Il primo è questo: “Fin quando la Sicilia non si emanciperà dai simboli non potrà avere un futuro roseo davanti a sé” (cfr. l’intervista a Repubblica del 21 luglio 2015).
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Si tratta, a prima vista, di un’affermazione contraddittoria se si considera che, tra le funzioni essenziali attribuibili ai simboli, rientra proprio quella di esprimere una tensione verso il futuro. Per citare le parole contenute in un recente saggio: ”I simboli politici ci offrono una risposta che guarda avanti perché nel nostro vivere in società si riponga una speranza di cose future per cui vale la pena di cooperare” (G. Zagrebelsky, Simboli al potere, Einaudi, 2012). Se così è, come mai Lucia Borsellino arriva addirittura a pensare che la Sicilia, per avere un futuro, dovrebbe al contrario emanciparsi dalla dimensione simbolica? La spiegazione deriva dal fatto che la critica della figlia del giudice Paolo Borsellino non riguarda i simboli in sé considerati, bensì la strumentalizzazione deteriore che se ne può fare e di fatto se ne fa. In questo senso, è appunto l’esperienza siciliana degli ultimi anni a offrire esempi numerosi ed emblematici. La politica isolana, essendo incapace di legittimare l’esercizio del potere mediante l’elaborazione di valori prodotti al suo interno e impersonabili da uomini politici credibili, ha cercato di legittimarsi facendo appello a valori e personaggi di matrice esterna che vengono in tal modo strumentalizzati a scopi di facile consenso: una sorta di appropriazione indebita, ancorché non di rado assecondata da chi per ingenua generosità o (più spesso) per ambizione si lascia cooptare.
Abbiamo così assistito a giunte regionali (si pensi ad esempio, prima del governo Crocetta, al governo Lombardo) che hanno furbescamente imbarcato in qualità di assessori, come simboli di legalità a sostanziale copertura di un persistente metodo clientelare-favoritistico di governo, magistrati tutt’altro che restii all’impegno politico in prima persona e persino discendenti con cognome illustre di celebri vittime del potere mafioso (si pensi al caso di Caterina Chinnici, che ha preceduto quello di Lucia Borsellino).
Questo cinico tentativo della politica, di rendersi moralmente presentabile e di recuperare credibilità agli occhi dei cittadini strumentalizzando valori e profittando di persone ad essa esterni, ha per fortuna ormai rivelato il suo vero volto: che è quello di un’impostura morale, prima che politica, la quale costituisce nel contempo un riflesso della profonda crisi culturale, di idee e di identità che affligge da alcuni anni le forze politiche (siciliane e non).
E tratti inequivocabili di grande impostura sono, senz’altro, rinvenibili nella cosiddetta antimafia di facciata o strumentale o di carriera: fenomeno perverso, questo, già diagnosticato da Leonardo Sciascia non pochi anni addietro e ormai sempre più denunciato specie a partire dalla campagna elettorale per le elezioni europee dello scorso anno.
Già un anno fa, commentando la sconfitta della candidata Stancheris sostenuta da Crocetta, il segretario regionale del Pd ebbe a definire morto il crocettismo e chiusa la stagione dell’antimafia strumentale (cfr. l’intervista al Giornale di Sicilia del 27 maggio 2014). Ma anche a prescindere dalle paradossali e altalenanti vicende del governo e del personaggio Crocetta (che è dato politicamente per defunto ma fatto resuscitare persino nello spazio di una stessa giornata), esemplificative di uno scenario fra il tragico e il farsesco in cui la Sicilia sembra spingersi sino a recitare la caricatura di se stessa, è il fenomeno dell’antimafia strumentale a esibire una presenza tutt’altro che contingente e a richiedere un’attenzione non superficiale. Se ne è resa ben conto Lucia Borsellino, che a questo proposito ha formulato il secondo dei due concetti degni di nota cui accennavo in precedenza: “Non capisco l’antimafia come categoria, come sovrastruttura sociale. Sembra quasi un modo per cristallizzare la funzione di alcune persone, magari per costruire carriere. La legalità, per me, è una precondizione di qualsiasi attività” (cfr. l’intervista a Repubblica del 3 luglio 2015). In effetti, queste consapevoli parole riportate tra virgolette toccano il cuore del problema. Infatti, premesso che i valori fondamentali racchiusi nell’idea di antimafia dovrebbero in teoria rientrare, come patrimonio comune, tra i basilari presupposti etici (e, dunque, pre-politici) della stessa attività politica, non importa se classificabile di destra, di sinistra o di centro; premesso questo, il problema appunto consiste nel comprendere quale possa essere il senso di un’antimafia concepita e praticata come una forma o uno stile specifico di azione politica.
In altre parole: l’antimafia ha una tale specificità politica da giustificare che alcuni politici intestino alla lotta alla mafia tutto il loro impegno politico? In realtà, un’esigenza di specializzazione sarebbe ad esempio comprensibile se il politico in questione dedicasse tutto il suo impegno soltanto all’elaborazione di leggi e di altri strumenti che servono alla repressione e alla prevenzione giuridica del fenomeno mafioso. Ma è già assai dubbio che, in uno Stato liberaldemocratico, rientri tra i compiti di un politico antimafia trasformarsi in una sorta di investigatore o procuratore di complemento: pretendendo, a mezzo di denunce o di indagini condotte con metodo extragiudiziario, di collaborare sistematicamente con gli organi di giustizia. Come sarebbe non meno impropria la pretesa del politico di conferire patenti di antimafia a questo o a quell’imprenditore, fungendo da garante di legalità nella concessione degli appalti e più in generale nel mondo degli affari. Tipi siffatti di politico, di cui non mancano noti esempi in Sicilia, danno in realtà luogo a ennesime forme di indebita supplenza e realizzano scambi confusivi di ruoli che finiscono col danneggiare la rispettiva credibilità della politica, del mondo delle impese e della giustizia. E, non a caso, è lo svolgimento di tali compiti eteronomi, come una lunga esperienza insegna, a creare il rischio concreto che dietro una retorica antimafiosa operi una tutt’altro che disinteressata antimafia di potere. Non occorre essere storici di professione per sapere che, dal secondo Ottocento in poi, la lotta alla mafia è stata più volte strumentalizzata per fini politici di parte o per carrierismo. Ad esempio lo stesso prefetto Cesare Mori, inviato da Mussolini a combattere le cosche mafiose nella Sicilia del periodo fascista, prendeva atto del fatto che l’accusa di mafioso nei confronti di qualcuno “venne spesso usata in perfetta malafede ed in ogni campo, compreso quello politico, anche come mezzo per abbattere avversari, per colpire concorrenti”. Niente di nuovo sotto il sole, dunque?
Comunque sia, residua anche un ragionevole sospetto: cioè che, nell’elevare l’antimafia alla dignità di settore totalizzante o assorbente di tutto un impegno politico, possa anche aver inciso e possa continuare a incidere – al di là di opzioni morali più o meno sincere – la scarsa capacità di concepire disegni politici di ampio respiro. Senonché, il modo migliore per togliere radici alle mafie – soprattutto in una prospettiva di prevenzione socio-economica – non può, specie oggi, consistere in altro che in questo: cioè nel riuscire a realizzare buone politiche generali, basate su idee e progetti all’altezza delle sfide del nostro tempo. Nel quadro di una politica degna di questo nome, è molto probabile che non vi sarebbe più bisogno di una politica specificamente antimafia. Anche perché, come già detto, la legalità e la lotta contro i poteri criminali dovrebbero costituire presupposti etici, trasversalmente condivisi, di qualsivoglia impegno politico.
A questo punto, si sarebbe quasi tentati di rinverdire la nota tesi (immoralistica?) di Benedetto Croce, secondo cui “l’onestà politica non è altro che la capacità politica”. Insomma, ogni mestiere ha o dovrebbe avere, come prima regola di morale professionale, quella di saperlo esercitare bene. Vale per il medico o l’ingegnere o l’avvocato, e lo stesso non può non valere per il politico (mentre l’onestà e la correttezza personali riguardano ciascuno, innanzitutto, come generico cittadino). Cosa pensano di questa regola elementare Rosario Crocetta o Ignazio Marino?
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