Imu e scuole paritarie, più libertà ai cattolici, più spazio al mercato
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La recente decisione della Cassazione, secondo cui anche le scuole cattoliche devono pagare l’Imu, riapre fatalmente l’intera questione del rapporto tra educazione libera e istruzione di Stato, oltre che tra Chiesa e istituzioni
di Carlo Lottieri | 27 Luglio 2015 ore 14:04 Foglio
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La recente decisione della Cassazione, secondo cui anche le scuole cattoliche devono pagare l’Imu, riapre fatalmente l’intera questione del rapporto tra educazione libera e istruzione di Stato, oltre che tra Chiesa e istituzioni.
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È comprensibile come alcuni tra i primi commenti abbiano sottolineato che il sistema scolastico italiano nel suo insieme difficilmente potrà reggere in assenza del contributo degli istituti di ispirazione religiosa. In certe aree, si pensi al Veneto, la loro presenza è significativa e se il versamento del tributo sugli immobili dovesse rendere impossibile la sopravvivenza di tali scuole, a risentirne sarebbe l’istruzione tutta. Per giunta, le nuove entrate dello Stato potrebbero essere annullate dai nuovi oneri a carico dello Stato, poiché il settore privato garantisce – anche al netto di quanto viene destinato agli istituti privati – notevoli economie che a questo punto, in qualche modo, sono a rischio.
Al di là di queste fondate preoccupazioni sembra opportuno evidenziare come vi sia più bisogno (e non meno) di concorrenza, pluralismo, varietà. È difficile immaginare che la qualità dell’offerta educativa possa eccellere in un quadro monopolizzato dai dipendenti statali. Uno dei maggiori economisti del secolo scorso, Milton Friedman, suggerì l’introduzione di “voucher” che garantissero a tutti la libertà di scegliere una scuola, pubblica o privata, proprio a partire dall’idea che la competizione induce a porsi al servizio dei clienti: in questo caso, degli studenti e delle famiglie.
La libertà, insomma, va apprezzata in sé e produce pure buoni frutti. In tal senso va aggiunto che la Chiesa per secoli ha saputo trarre beneficio da un ordine sociale che le garantiva ampia facoltà d’azione, lasciandola agire quale luogo di educazione delle giovani generazioni: basti pensare ai gesuiti e a molti altri ordini religiosi. In seguito, con il pieno trionfo dello Stato moderno, lo spazio di un’istruzione indipendente si è ridotto sempre di più, poiché i poteri sovrani hanno avuto bisogno di dotarsi di formidabili strumenti di costruzione del consenso.
Dopo l’unificazione di metà Ottocento, in particolare, da noi si è proceduto con determinazione a una progressiva statizzazione del sistema di insegnamento non tanto al fine di estendere e universalizzare la conoscenza (come talvolta si legge ancora), ma perché nella classe dirigente risorgimentale era forte la consapevolezza che, se si doveva “fare gli italiani”, era cruciale controllare le agenzie incaricate di formare le coscienze delle nuove generazioni. La scuola pubblica sorge al fine di operare una sostituzione: bisogna che i valori della società cattolica lascino il posto ai nuovi principi della Patria e della comunità nazionale.
È stata proprio l’esigenza di marginalizzare la fede cristiana a soffocare ogni possibilità di un mercato educativo nella Penisola. Per questo la difesa del diritto a esistere delle scuole confessionali coincide con la difesa della libertà di tutti ed è anche necessario rilevare come gli istituti a ispirazione religiosa e la stessa funzione educativa della Chiesa abbiano potuto esprimersi al meglio entro un quadro che lasciava spazio alla voglia di fare e al desiderio di mettersi al servizio degli altri. Nell’età della compiuta affermazione dello Stato nazionale, invece, questa modalità di evangelizzazione è stata subito messa in un angolo.
Bisogna allora prendere atto che, anche se l’ultima enciclica papale celebra il potere pubblico (fino al punto che quasi non pare esserci più spazio per le libere realtà di mercato: comprese quelle ispirate dall’insegnamento del Vangelo), le mille iniziative condotte dai cristiani di buona volontà rappresentano “de facto” una costante messa in discussione di un progetto istituzionale e culturale che, monopolizzando l’istruzione, prospetta una società del tutto omogeneizzata, senza spirito d’iniziativa, piegata alle ragioni del conformismo dominante.
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COMMENTI
1- Moreno Lupi • 5 ore fa
Al direttore, "più libertà ai cattolici, più spazio al mercato", in otto parole la bestemmia massima per le orecchie del mainstream, omologato, conformista, imbecille, del pensiero predominante sui mezzi d'informazione e divulgazione. Non c'è ragionevole calcolo economico, non ci sono argomenti razionali, tentativi di affrontare il problema, voglia di trovare una soluzione condivisa, che tengano, erompe l'odio ideologico, la fissità mentale, l'ossessione per tutto quello che possa essere un ostacolo alla visione e al progetto di una società statalista/collettivistica. Si possono fare tutti i distinguo, richiami all'uguaglianza, all'equità, al giusto, che si vuole. Il nocciolo duro del pensiero del mainstream è la negazione di una società aperta, plurale, democratica in cui tutti abbiano pari possibilità d'espressione e d'azione. La verità è che, per società aperta, plurale, democratica intendono solo quella controllata e gestita, dall'A alla Z, da loro. Che poi tanti rimangano affascinati e convinti dall'imbroglio è un altro discorso. Il farlo ci porterebbe lontano. Chi può, chi vuole capire, ha già capito. E gli altri?, quelli che vanno dietro ai pifferai magici? Ci penserà "la vacca vita boia", ad aprirgli gli occhi.
2- carlo schieppati • 5 ore fa
Il problema è come pensare il rapporto stato/società: se lo Stato deve essere pensato come "una" delle forme con cui la società si organizza o se è la (unica) forma di organizzazione sociale. Come ebbe a dire Mussolini a Milano il 28 ottobre del 1925: "La nostra formula è questa: tutto nello Stato, niente al di fuori dello Stato, nulla contro lo Stato". Dopo 90 anni queste parole hanno trovato compiuta legittimazione nella più "fascista" delle sentenze della Cassazione. A questo punto l' "opzione Benedetto" diventa obbligatoria, anche se sappiamo che verranno a stanarci anche lì. Passare all'homeschooling?: nel presente regime nazidemocratico è forte il rischio che ci portino via anche i figli. Sì: siamo approdati ad una "democrazia totalitaria", e bisogna cominciare ad usare questa categoria se vogliamo capirci qualcosa. Nel secondo dopoguerra, gli spiriti più avveduti avevano compreso - dopo l'esperienza dei totalitarismi nazista e comunista - che la degenerazione in totalitarismo era il destino inevitabile di una democrazia "senza valori" cioè senza società (Grossman in Vita e Destino: " in un paese totalitario, dove non esiste società,..."). Per questo avevano cominciato a parlare di una "democrazia liberale", di una "democrazia socialista", di una "democrazia cristiana" ecc. (ma cazzo: Del Noce ha scritto quello che ha scritto per niente?).
In compenso si presenta una grande occasione: quella di ridisegnare gli schieramenti reali della nostra società in base alle rispettive culture politiche ( come ricordava oggi il prof. Nicola Rossi con riferimento alla politica fiscale). Allora vengano presentate in tutte le assemblee elettive, consigli comunali e regionali, delle mozioni che impegnino le Amministrazioni a stornare sotto forma di contributi alle Paritarie (ma toccherà anche agli Oratori ecc.) gli introiti derivanti dall'applicazione di questa sentenza demenziale. Vediamo come si schierano e chi sono i sostenitori della società aperta e pluralista e i sostenitori della società totalitaria.