La corruzione non si può estirpare
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L’Italia vera è ancora quella di Modugno. Renzi e la lezione di Volare oh oh
di Lanfranco Pace | 26 Marzo 2015 ore 13:02
Nel 1958 un cantautore venuto dal sud, ovvero per quel tempo dal nulla, sale sul palco di Sanremo. Canta una canzone energica, ritmica, vagamente ermetica, un sogno da dormiveglia: d’incanto, tutto ciò che è intorno invecchia, gli altri cantanti, il sentimentalismo zuccheroso e la spiccata tendenza di un paese alla lacrima e all’autocommiserazione. “Volare” non è solo un immediato successo planetario: è l’icona futurista di un paese ancora traumatizzato che vuole balzare in avanti. I giornalisti dell’epoca hanno fervida immaginazione, vanno oltre l’apologia, scrivono che Modugno e “Volare” arrivano proprio nel momento in cui gli americani lanciano nello spazio il loro primo vettore: è chiaro il presagio dell’Italia che sarà, il paese in cui da Aosta a Palermo si potrà andare in poche ore, ricco di strade, ponti, ferrovie, insomma finalmente un paese moderno. Per il popolo che ha fame e si sta rimboccando le maniche è una frustata d’energia, uno stimolo in più a lasciarsi alle spalle la campagna dove ci si ammazza di fatica e per un metro di muro. Sogna ormai la città, l’italiano, la solidità del cemento, il confort dell’acqua calda, dei servizi sanitari dentro casa. Ma la città ha una forza corruttrice molto più grande della natura. L’aveva scoperto a sue spese anche il regime fascista, che pure aveva creato ceto medio urbano e fatto i primi passi verso la modernizzazione. Lo scoprono subito i grandi builder dell’Italia repubblicana. L’autostrada del Sole, capolavoro d’ingegneria che meravigliò un’Europa ancora ferma alle strade consolari dell’Impero romano, fu fatta con l’ingegno, con le bustarelle e non poche compressioni dei già scarsi diritti dei lavoratori. Va da sé che ci furono resistenze e polemiche, petulanti rompicoglioni strepitavano contro il regalo fatto alla Fiat. Che fosse opportuno ungere partiti, leader politici, funzionari, giornalisti, il primo a capirlo e a metterlo in pratica su vasta scala fu Enrico Mattei, un genio e primo corruttore della Repubblica. Sono passati 57 anni. Un po’abbiamo fatto, ma non molto.
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Fenomenologia del dipietrismo renziano
Nello stesso lasso di tempo, gli altri paesi cambiano pelle due, tre volte. Parigi oggi non è quella degli anni 70, Berlino in dieci anni è stata rifatta da capo. E noi a cincischiare con qualche grattacielo a Milano, l’Auditorium a Roma, la rete ad alta velocità bella ma incompiuta, le reti regionali che fanno ancora molto schifo, la Sicilia o la Calabria dove o ti muovi in macchina o te ne resti a casa, non abbiamo costruito raddoppi autostradali, la variante di valico è in ritardo ed è già un miracolo. E come spina dorsale abbiamo un sistema di telecomunicazioni da quarto mondo. C’è bisogno di grandi opere come dell’ossigeno, ma no, non si possono fare perché c’è la corruzione. Il clima è surreale, se in un certo consesso dici ponte di Messina ti guardano come uno che bara al monopoli, un distributore di fondi neri, un cripto mafioso smanioso di speculare sul cemento, sul movimento terra, sui terreni da espropriare, sul diavolo che se li porti. Eppure, proprio il non fare e la lentezza del decidere, ovvero la stagnazione, è il più fertile habitat per la corruzione. Mettiamo pure da parte l’Incalza, ma il palazzinaro che ha chiesto un permesso, una licenza, comincia a immobilizzare capitali e dopo tre, quattro anni non ha ancora avuto risposta dall’amministrazione competente, che può fare lui? Magari se sta a Roma può telefonare al signor Carminati, che non è l’architetto di nulla ma il prodotto forse osceno ma indispensabile alla vita collettiva del mal funzionamento e dell’irresponsabilità della pubblica amministrazione: è la muffa che nasce in uno scantinato umido.
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Non so come la Corte dei Conti e altri organismi internazionali possano quantificare in 50 o 60 o 70 miliardi l’anno il danno che la corruzione arrecherebbe al paese. Sembrano numeri a vanvera fatti apposta per cavalcare un’opinione pubblica impaurita e rancorosa. La butto lì: per come è questa Italia, non ci fosse la corruzione, ogni lavoro, ogni cantiere si diluirebbe nel tempo fino a svanire: il pil allora calerebbe e di brutto. Certo la corruzione non sta bene e distorce la concorrenza ma ci sarà una qualche ragione se alligna un po’ ovunque, anche in paesi di alta e proba democrazia: estirparla è come voler sopprimere la cupidigia umana. Per questo fa sorridere il credere di risolvere ogni problema con l’inasprimento delle pene e un allungamento demenziale dei termini della prescrizione, ricorda il Di Pietro che per avere la certezza della pena pensava si dovessero costruire nuovi carceri.
Abbiamo un premier che davvero vuole andare veloce, e se potesse altro che “Volare”. Eppure sta perdendo la sua risorsa più preziosa, il tempo. Procede a zig-zag invece di cominciare a tagliare procedure, leggi, norme, regolamenti, disboscare quella che è la giungla legislativa più rigogliosa d’Europa, vera tana della corruzione. Non era poi questa la sfida lanciata al paese e al peso del passato?