Come i popoli deportati ricordano il dolore. Quella del medio oriente è una storia di esodi e spostamenti forzati sin dall’antichità.
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Ebrei, assiri e babilonesi. I romani spostavano gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. E la Cina è nata con spostamenti forzati epocali
SIEGMUND GINZBERG 11 MAG 2024 ifoglio.it lettura10’
Sballottati, costretti a muoversi da nord a sud, e poi ancora da sud a nord. Privati di tutto. Migranti forzati, sloggiati manu militari, costretti ad accamparsi in luoghi sconosciuti. Da dove verranno magari nuovamente scacciati. Sempre che siano riusciti a sopravvivere alla guerra. I bambini in braccio, i vecchi sorretti, o portati in spalla, in fila su strade e sentieri polverosi o fangosi. Ingombri delle poche cose che gli sono rimaste. Affamati, assetati, senza più neanche la forza di essere arrabbiati. Chi non ce la fa lasciato indietro. Popoli sradicati, fluttuanti, spintonati con violenza da una località all’altra. Lì succede da millenni.
Ci sono le testimonianze. Frammentarie. Oscurate dalla censura, o ingigantite dalla propaganda. “Ho raso al suolo tutte le loro città, ho portato via, come bottino, tutti gli abitanti, il bestiame, lasciando [in piedi] solo la città di Samaria [l’allora capitale del regno di Israele], che si era sottomessa quale tributaria, mentre il regno di […]”, suona la faticosa ricostruzione di un’iscrizione su argilla, in più punti lacunosa, del sovrano assiro sulle campagne militari di Tiglath-Pileser III in Siria e in Palestina (734-732 a.C.). “Li ho portati via con quel che possedevano [il loro bestiame e le loro greggi]”. Spostamento forzato. Sotto scorta armata. “O vi muovete dove vi diciamo noi, o vi ammazziamo”, si può presumere. “[Li ho costretti a superare] montagne difficoltose”, si legge negli Annali di Tiglath-Pileser, altrettanto rovinati e difficili da decifrare. Migrazione “difficile”, strada impervia, tormentosa deve essere stata davvero, se a dirlo è il sovrano che li ha fatti spostare. Non disponiamo di alcuna narrazione da parte dei deportati.
Ci sono le cifre. Sballate, inaffidabili, contraddittorie, a seconda che a dare i numeri sia l’una o l’altra delle parti in causa. Per l’antichità avere due versioni spesso è un lusso. Abbiamo per lo più quella dei vincitori. Gli assiri erano scrupolosi nel far di conto. Qualche centinaio dal tal villaggio, qualche centinaio dal tal altro, in tutto “13.520 persone” annotano gli scribi di Tiglath-Pileser. Poco più di un decennio dopo, uno dei suoi successori, Sargon II, è più preciso ancora: “Li ho combattuti [i samaritani] e ho portato via 27.290 di loro, con 50 carri per le mie truppe regie”. Si tratta della campagna per domare, nel 720 a. C., la ribellione iniziata da Hamath (l’antica città siriana, non Hamas). Porta gli eserciti assiri fino a Gaza, alle porte dell’Egitto. “Ho assediato e conquistato Ashdod, Gath e Ashdod-Yam. Ho contato come spoglie gli dèi, le donne, i bambini, tutti i possedimenti e i tesori, del palazzo come degli abitanti. Ho ricostruito le loro città e vi ho sistemato gente delle altre città che avevo conquistato a oriente”. Conferma la Bibbia: “Venne Tiglat-Pileser, re di Assiria. Prese Iion, Abel-Bet-Maacà, Ianòach, Kedes, Asor, il Gàlaad e la Galilea, tutta la terra di Nèftali, e ne deportò gli abitanti in Assiria” (2 Re 15,29). Confermano gli scavi archeologici. Di Samaria, l’allora capitale del regno di Israele, Sargon dice che l’ha “ricostruita e fatta più grande di prima”. E che, dopo averla svuotata di parte dei suoi abitanti, vi ha mandato “genti delle [altre terre] conquistate”, mettendogli a capo come governatore uno dei suoi eunuchi, e imponendo “su di loro tributo e tasse come agli Assiri”.
Le terre che aveva svuotato le riempì con altre popolazioni. “Ho sconfitto [le tribù di] Thamud, Ibadidi, Marsimani e Hayapa, gli arabi che vivono lontani nel deserto, dei quali nessuno dei miei governatori o funzionari aveva neppure conoscenza, che non pagavano tributo ad alcun re. E li ho spostati perché risiedessero in Samaria”, fa scrivere sempre Sargon nei suoi annali. Prima ancora aveva fatto deportare le tribù restive che popolavano l’altopiano iranico dalla catena dei Monti Zagros, sino ai confini dell’Egitto.
Sennacherib, successore di Sargon, nel 701 mosse contro il regno di Giuda, l’altro regno ebraico, che, a differenza di Samaria, aveva mantenuto la sua indipendenza. Giostrando accortamente intese con i vicini. Il nuovo re di Giuda, Ezechia, aveva però sconvolto l’equilibrio delle alleanze. Si era avvicinato all’Egitto, gran rivale degli assiri, e stava minacciando le città filoassire sulla strada per l’Egitto. Sennacherib gli aveva mosso guerra. Ezechia aveva fortificato Gerusalemme. L’aveva attrezzata a un lungo assedio. Aveva costruito una fitta rete idrica sotterranea, di cunicoli e tunnel a cui l’assediante non poteva arrivare. Gerusalemme non capitolò, ma fu costretta a pagare un pesante tributo. Ciascuna delle due parti cantò vittoria. Succede anche al giorno d’oggi. L’importante è poter gridare in faccia al nemico, e dire alla propria gente, di avere vinto.
Ecco la versione trionfalistica di parte assira: “Ezechia il Giudeo, che non si era sottomesso al mio giogo […] lo rinchiusi in Gerusalemme come un uccello in gabbia. Accumulai terrapieni contro di lui, e chi voleva uscire dalle porte della città veniva respinto alla sua miseria […] Ezechia fu terrorizzato dallo splendore della mia Signoria, e venne abbandonato dai mercenari che aveva portato a rafforzare Gerusalemme. Oltre a 30 talenti d’oro e 800 talenti d’argento, pietre preziose e gioielli, letti e seggi d’avorio, pelli e zanne d’elefante, legno pregiato, ogni genere di tesoro, come pure le sue figlie, le sue donne di palazzo, i suoi musici, maschi e femmine, dovette mandarmi a Ninive”.
Ad alcuni studiosi il numero di deportati nelle fonti assire appare così enorme che ipotizzano venissero conteggiati anche gli animali
Le iscrizioni reali assire dicono che nel corso di quella guerra Sennacherib, il successore di Sargon, aveva decuplicato la movimentazione di popolazione, rispetto alle campagne precedenti. Aveva fatto deportare 201.150 persone, “giovani e vecchi, maschi e femmine, cavalli, muli, asini, cammelli, buoi, greggi innumerevoli [di pecore e capre]”. A sommare i numeri citati nelle iscrizioni, per tutti i movimenti su e giù in tutto il regno, si arriva a 350.000 deportati. Sennacherib era uno che sapeva il fatto suo, aveva informazioni precise, disponeva della migliore intelligence dell’epoca. L’altra cosa su cui gli assiri non erano secondi a nessuno era il sistema di strade – si presume con relative attrezzature di ristoro e sorveglianza – lungo le quali spostare queste fiumane. Non per niente, da principe ereditario, era stato il capo dell’attrezzatissimo spionaggio assiro. Ad alcuni studiosi il numero di deportati appare così enorme, rispetto alle popolazioni dell’epoca, che ipotizzano vengano conteggiati anche gli animali. L’insigne assirologo dell’Università di Haifa Bustenay Oded, autore a fine anni 70 di un fondamentale studio su Mass Deportations and Deportees in the Neo-Assyrian Empire, stima che in tre secoli siano stati spostati con la forza dai 4 ai 4,5 milioni di persone.
Meglio deportati che massacrati. I bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture erano volti a incutere terrore
Meglio deportati che massacrati, verrebbe da dire. Si sa che la propaganda assira, i terrificanti bassorilievi con decapitazioni, mutilazioni, scorticamenti, torture inflitte ai nemici erano volti a incutere terrore, scoraggiare ogni tipo di resistenza. Era, si ritiene, un modo di dire al mondo intero: guardate come siamo cattivi, non azzardatevi a provocarci. Appena un pochino meno spettacolari le deportazioni, gli esodi forzati, le sostituzioni di popolazioni da un capo all’altro dell’impero. Perché lo facevano? Per punire chi mal sopportava, o si ribellava al giogo assiro? Per ragioni di sicurezza, strategiche? Per rimescolare carte, alleanze e vassallaggi? La cosa più sorprendente è che spesso se li portavano in casa, fino in Assiria. Anziché allontanarli il più possibile, come si fa oggigiorno. Perché l’impero assiro aveva un bisogno disperato di forza lavoro, possibilmente specializzata (come mostrerebbe l’interesse specifico a requisire carri e reclutare aurighi e mulattieri registrato negli annali; oppure la presenza negli scavi di vasellame, fatto localmente, ma da vasai provenienti dai quattro angoli dell’impero)? Non sappiamo che sofferenze patissero i deportati, quanti ne morissero per strada nelle lunghe marce forzate. Quanti di stenti, quanti di malattie, quanti per violenza. Sappiamo però che non tutti venivano trattati male. Molti prosperarono nelle destinazioni loro assegnate. Alcuni fecero carriera nelle forze armate assire. Altri nell’amministrazione.
La storia della regione che oggi chiamiamo medio oriente è lastricata di violenze, assedi, massacri. E anche, forse, soprattutto di movimenti violenti di popolazione. Era fresca la memoria delle deportazioni assire che Gerusalemme fu attaccata dal re babilonese Nabucodonosor, desideroso di conquistare i porti del Mediterraneo e di aprirsi una via verso l’Egitto. L’assedio durò un anno e mezzo e si concluse nel 586 a. C. quando la città fu sconfitta e venne distrutto il Tempio di Gerusalemme. E’ di ebrei deportati a Babilonia lo struggente coro “Va pensiero” del Nabucco di Verdi. che ancora oggi riesce a commuoverci. Miracoli della grande musica. La “Patria, sì bella e perduta” del testo di Temistocle Solera, musicato da Verdi, è ovviamente l’Italia occupata dagli austriaci. La cosa oggi incredibile è che la censura austriaca gliela lasciò passare.
Il ritorno degli ebrei da Babilonia non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti
L’esilio babilonese ha lasciato un segno profondo nella cultura ebraica, gli ha dato il Talmud, detto appunto babilonese, una sterminata raccolta di commenti, pareri, norme etiche, giuridiche e rituali, condita di note, chiose, dotte discussioni, spiegazioni a margine, che spesso lasciano la questione aperta a una pluralità di interpretazioni. A liberarli e a permettergli di tornare a casa fu un re persiano, Ciro il grande, campione di tolleranza religiosa, che nel frattempo aveva conquistato Babilonia. Il ritorno non fu facile. I reduci che volevano ricostruire il Tempio si scontrarono con i giudei che erano rimasti e non erano stati deportati. Li denunciarono al nuovo sovrano persiano, chiedendogli di punirli. All’esilio sotto dominazione persiana si riferisce anche la storia biblica di Ester, ebrea, sposa del re persiano Assuero. Ce ne sono diverse versioni. E’ stata attribuita talvolta a epoche diverse. Il cattivo Aman, che spinge il re persiano a sterminare gli ebrei, è anche lui discendente di deportati dalla Palestina, ma di etnia diversa dagli ebrei. Gli va male, finisce lui impiccato all’albero che aveva fatto preparare per il giudeo Mordecai. Un’amica, Miriam Camerini, che studia da rabbina (auguri!), ne interpreta la morale nascosta come un appello al re da parte di Ester perché faccia il suo mestiere e fermi il programmato massacro e la catena di vendette. Suggestivo, ma ci devo ancora riflettere. Quello scampato pericolo gli ebrei lo festeggiano a Purim. E’ una delle due feste, del tutto laiche, che più ricordo della mia infanzia in una famiglia non praticante. Sono dominate dal racconto, dal pranzo in famiglia, non dai riti religiosi. L’altra è Pesach, il passaggio, la liberazione dall’Egitto. Anche quella è una storia di migrazione di massa, ma non forzata, né respinta, e neppure temuta come invasione, bensì strappata a fatica al faraone che non li lasciava partire.
I romani se ne intendevano di ingegneria etnica. Spostavano in tutta la penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico
Gli ebrei continuarono a essere deportati e perseguitati dai satrapi ellenistici eredi di Alessandro Magno. Furono a più riprese conquistati, assediati, massacrati, deportati, e infine costretti a disperdersi per il mondo, dai romani. I quali antichi romani, di deportazioni in massa, e di ingegneria etnica (i coloni) se ne intendevano. Durante la conquista dell’Italia, e poi durante la guerra portata in Italia da Annibale, spostarono forzosamente da un capo all’altro della penisola gli abitanti delle città che temevano potessero passare al nemico. Tito Livio racconta di come nel 179-80 a. C. 50.000 liguri apuani furono deportati nel Sannio, 7.000 addirittura via nave, dalla costa toscana a quella campana. Malgrado quelli implorassero che li si lasciasse a casa loro, e si fossero impegnati a non prendere le armi contro Roma (Ab urbe condita, XL, 38). Li avevano, racconta sempre Livio, affamati bruciando le loro vigne e i loro raccolti, tagliandogli vie di comunicazione e rifornimenti. Giulio Cesare aveva messo in pratica la notevole expertise acquisita in materia, spintonando per di qua e per di là, e mettendo l’una contro l’altra le diverse tribù delle Gallie, secondo la convenienza strategica del momento. Di buono c’era che non avevano il concetto di “razza” italica o romana. Solo di cittadinanza.
La Cina praticamente è nata con spostamenti forzati epocali. Qin Shihuangdi, il Primo imperatore, l’aveva unificata spostando di qua e di là milioni di persone, le etnie più disparate, reclutandole nei suoi eserciti, nei grandi lavori idraulici, nella costruzione della Grande muraglia, e in quella della sua tomba. L’America si è fatta, oltre che sull’arrivo di masse sterminate di immigrati, sulle ossa delle tribù indiane spinte sempre più verso le terre più inospitali dell’ovest.
Si capisce che la questione degli esodi, dell’esodo forzato (o anche dell’esodo impedito), sia da sempre la più intrattabile di tutte.
Facevo il corrispondente in America quando nel 1992 assistetti in diretta al naufragio degli accordi di Oslo proprio sulla questione del “diritto al ritorno” dei palestinesi. Incredibile a ripensarci: gli avevano offerto a Camp David, su insistenza di Clinton, uno Stato palestinese nella striscia di Gaza e in gran parte della Cisgiordania, il ritorno di un limitato numero di profughi e un indennizzo per gli altri, in cambio dello smantellamento dei gruppi terroristici. Arafat rifiutò, insisteva sul diritto al ritorno per tutti. Non fece controproposte. Me l’avevano spiegata così: se Arafat firma una rinuncia al “diritto al ritorno”, i suoi l’ammazzano.
La cacciata da casa propria è, da che mondo è mondo, il più pesante dei traumi. Naqba, catastrofe per eccellenza, la chiamano i palestinesi. Come catastrofe epocale fu vissuto lo scambio forzato di 18-20 milioni di musulmani e di indù tra India e Pakistan nel 1947. Come catastrofe fu vissuta nella Istanbul della mia infanzia lo scambio forzato di turchi e greci. Prima c’era stato lo sterminio degli armeni. La maggior parte in atroci marce forzate attraverso l’Anatolia devastata. Stalin aveva spostato da un capo all’altro dell’immensa Unione sovietica interi popoli, intere categorie sociali o politiche. Hitler li spostava da un capo all’altro dell’Europa per sterminarli. Non so come finirà a Gaza. Non oso pensare quanto sarà difficile negoziare su eventuali scambi e movimenti di popolazione tra Ucraina e Russia, quando e se finirà la guerra.