(Non) sapere è potere. La nuova società è degli ignoranti e la virtù è degli incompetenti
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In “La conoscenza e i suoi nemici”,Tom Nichols analizza la crisi della cultura di oggi, definendo questa come l’epoca dell'orgogliosa faciloneria e delineando i possibili rischi della democrazia
Tom Nichols 5.8.2023 linkiesta.it lettura6’
Si tratta di qualcosa in più che un naturale scetticismo nei confronti degli esperti. Temo che stiamo assistendo alla fine dell’idea stessa di competenza, un crollo – alimentato da Google, basato su Wikipedia e impregnato di blog – di qualsiasi divisione tra professionisti e profani, studenti e insegnanti, conoscitori informati e fantasiosi speculatori; in altre parole, tra coloro che hanno ottenuto un qualche risultato in un’area e coloro che non ne hanno raggiunto nessuno.
Spesso gli attacchi al sapere consolidato e la conseguente eruzione di cattive informazioni tra i cittadini sono divertenti. A volte addirittura esilaranti. Molti comici dei programmi in onda in seconda serata costruiscono i loro sketch ponendo al pubblico domande che ne rivelano la diffusa ignoranza sulle idee che difende con forza, l’attaccamento alle mode e la riluttanza ad ammettere la propria incompetenza sugli eventi d’attualità. Quando le persone affermano con enfasi, per esempio, di evitare il glutine per poi ammettere di non avere idea di cosa sia, è una cosa innocua. E diciamocelo: la gente non la smette mai di pronunciare con sicumera opinioni estemporanee su scenari grotteschi, come “l’assenza di Margaret Thatcher a Coachella favorisce la decisione della Corea del Nord di sganciare una bomba nucleare?”.
[…] La crescita di questa ostinata ignoranza in piena era dell’informazione non si può spiegare soltanto come l’esito di ignoranza bella e buona. Molti di coloro che conducono campagne contro il sapere consolidato sono cittadini capaci e di successo nella vita quotidiana. In un certo senso, siamo di fronte a qualcosa di peggio dell’ignoranza: si tratta di un’arroganza infondata, dello sdegno di una cultura sempre più narcisistica che non riesce a sopportare neanche il minimo accenno di diseguaglianza, di qualsiasi tipo essa sia. Con l’espressione “fine della competenza” non intendo il crollo delle capacità reali degli esperti, la conoscenza di argomenti specifici che distingue alcune persone da altre in vari settori. Ci saranno sempre medici e diplomatici, avvocati e ingegneri, e molti altri specialisti in vari campi. Nella vita quotidiana, il mondo non potrebbe funzionare senza di loro. Se ci fratturiamo un osso o se ci arrestano, chiamiamo rispettivamente un medico o un avvocato. Quando viaggiamo, diamo per scontato che il pilota sappia come funzioni un aereo. Se ci troviamo ad affrontare problemi mentre siamo all’estero, chiamiamo un funzionario del consolato che, presumiamo, saprà cosa fare.
Questo, però, vuol dire che ci affidiamo agli esperti come tecnici. Non c’è un dialogo tra loro e la comunità allargata, ma l’uso di un sapere consolidato come se fosse una merce preconfezionata da adoperare alla bisogna, fintantoché si desidera farlo. Mi ricucia questo taglio alla gamba, ma non mi faccia ramanzine sulla mia dieta (più di due terzi degli americani sono in sovrappeso); mi aiuti a superare questo problema con le tasse, ma non mi ricordi che dovrei redigere un testamento (grossomodo la metà degli americani con figli non si è mai preoccupata di scriverne uno); mantenga il mio Paese sicuro, ma non mi stia a confondere con i costi e i calcoli che riguardano la sicurezza nazionale (la maggior parte dei cittadini americani non ha idea, neppure lontanamente, di quanto ammontino le spese militari degli Stati Uniti).
Tutte queste scelte, dal proprio regime alimentare alla difesa nazionale, richiedono un dialogo tra cittadini ed esperti, ma sempre di più, a quanto pare, i cittadini non vogliono prendere parte a questa conversazione. Preferiscono credere di possedere informazioni a sufficienza per prendere queste decisioni per proprio conto, ammesso che siano interessati a farlo.
D’altro canto, molti esperti, e in particolare quelli che appartengono al mondo accademico, hanno abdicato al loro dovere di interagire con il pubblico. Si sono trincerati dietro il proprio gergo e la propria irrilevanza, preferendo interagire soltanto tra loro. Nel frattempo, coloro che si trovano a metà, a cui spesso ci riferiamo con l’espressione “intellettuali impegnati” – mi piace pensare di essere uno di loro –, stanno diventando altrettanto frustrati e radicalizzati del resto della società.
La fine della competenza non è solo un rifiuto del sapere esistente. È fondamentalmente un rifiuto della scienza e della razionalità obiettiva, che costituiscono le fondamenta della civiltà moderna. È segno, come ha affermato una volta il critico d’arte Robert Hughes descrivendo l’America di fine Novecento, di “una politica ossessionata dalle terapie e piena di diffidenza per la politica formale”, cronicamente “scettica nei confronti dell’autorità” e “in preda alla superstizione”. Abbiamo chiuso il cerchio, partendo dall’età premoderna, in cui la saggezza popolare colmava inevitabili lacune nella conoscenza umana, attraverso un periodo di rapido sviluppo fortemente basato sulla specializzazione e la competenza, fino a un mondo postindustriale e orientato all’informazione, dove tutti i cittadini si ritengono esperti di qualsiasi cosa.
Ogni affermazione di competenza da parte di un esperto vero, nel frattempo, produce un’esplosione di rabbia in alcuni segmenti della popolazione americana, pronti a lamentarsi che simili rivendicazioni non sono altro che fallaci “appelli all’autorità”, segni inequivocabili di un temibile “elitarismo”, nonché un evidente tentativo di usare delle qualifiche per soffocare il necessario dialogo richiesto da una democrazia “reale”. Gli americani ormai credono che avere diritti uguali in un sistema politico significhi anche che l’opinione di ciascuno su qualsiasi argomento debba essere accettata alla pari di quella di chiunque altro. Moltissime persone ne sono convinte, nonostante si tratti di un’evidente assurdità. È una rivendicazione categorica di uguaglianza che è sempre illogica, talvolta divertente e spesso pericolosa.
[…] La reazione più immediata di molte persone quando si affronta il tema della fine della competenza è di dare la colpa a internet. Quando si trovano di fronte clienti che pensano di saperla più lunga di loro, i professionisti, in particolare, tendono a indicare nella Rete la colpevole. Come vedremo, non è una tesi del tutto sbagliata, ma resta pur sempre una spiegazione semplicistica. Gli attacchi al sapere consolidato hanno un lungo pedigree e internet è solo lo strumento più recente nell’ambito di un problema ciclico, che in passato ha afflitto allo stesso modo la televisione, la radio, la stampa e altre innovazioni.
Allora perché tutto questo clamore? […] Siamo davvero alla “fine della competenza” o si tratta solo delle solite lamentele degli intellettuali per il fatto che nessuno li ascolta, nonostante si siano autoproclamati le persone più intelligenti sulla piazza? Forse non è nient’altro che una forma d’ansia che i professionisti nutrono nei confronti delle masse dopo ogni ciclo di trasformazione sociale o tecnologica. O forse è solo un’espressione caratteristica della lesa vanità di professori sovraistruiti ed elitaristi come me. Forse, infatti, la fine della competenza è un segno di progresso. I professionisti istruiti, dopotutto, non stringono più il sapere in una morsa. I segreti della vita non sono più nascosti in giganteschi mausolei di marmo, le grandi biblioteche del mondo le cui sale incutono timore anche al numero relativamente piccolo di persone che vi entrano. A parità di condizioni, in passato c’è stato minore attrito tra esperti e profani, ma solo perché, semplicemente, i cittadini non erano in grado di sfidare gli esperti in modo sostanziale.
Inoltre, nell’èra precedente alle comunicazioni di massa erano pochi i luoghi pubblici in cui lanciare simili sfide. Fino all’inizio del Ventesimo secolo la partecipazione alla vita politica, intellettuale e scientifica era molto più circoscritta e i dibattiti sulla scienza, la filosofia e la politica pubblica erano tutti condotti con penna e inchiostro da una piccola cerchia di maschi istruiti. Non erano esattamente giorni idilliaci e non sono poi così distanti nel tempo. L’epoca in cui la maggior parte delle persone non portava a termine la scuola superiore, pochi andavano all’università e solo una piccola frazione della popolazione aveva accesso alle professioni è ancora presente nella memoria di molti americani.
Solo negli ultimi cinquant’anni i cambiamenti sociali hanno infranto le vecchie barriere di razza, classe e sesso, e non solo tra gli americani in generale, ma anche, in particolare, tra i cittadini non istruiti e l’élite degli esperti. Uno spazio di dibattito più ampio ha significato più conoscenza, ma anche più attriti sociali. L’educazione universale, il maggiore potere delle donne e delle minoranze, lo sviluppo di una classe media e l’aumento della mobilità sociale sono tutti fattori che hanno messo in contatto diretto una minoranza di esperti e la maggioranza dei cittadini, dopo quasi due secoli in cui raramente le due categorie hanno dovuto interagire tra loro.
Eppure il risultato non è stato un maggiore rispetto per il sapere, ma il diffondersi tra gli americani di una convinzione irrazionale secondo cui tutti sono altrettanto intelligenti di chiunque altro. Questo è l’opposto dell’istruzione, il cui obiettivo dovrebbe essere che le persone, non importa quanto siano intelligenti o abili, apprendano per tutta la vita. Invece ormai viviamo in una società dove l’acquisizione di un sapere anche minimo è il punto di arrivo dell’istruzione, anziché l’inizio. E questa è una cosa pericolosa.
Tratto da “La conoscenza e i suoi nemici. L’era dell’incompetenza e i rischi per la democrazia” di Tom Nichols, edito da Luiss University Press, pagine 248, €22,00.
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