UFFA! Alle origini della disinformazione su Facebook, sistemica e mai casuale

Max Fisher e la macchina dei like. "La macchina del caos" è il volumone di un team di ricercatori sul mondo dei social media che nel 2019 sono stati finalisti al Premio Pulitzer. Un libro spaventoso nel dirci in quali dannate mani siamo noi cittadini del terzo millennio

GIAMPIERO MUGHINI 10 GIU 2023 ilfoglio,it lettura4’

L'Intelligenza artificiale è positiva, ma la transizione sarà dolorosa

Dato che di come funzionano i social e come interagiscono i loro utenti e come ne vengano ammaliati so solo che è il comparto della vita il più rilevante del presente – quando un americano medio controlla il proprio smartphone qualcosa come 150 volte al giorno e il più delle volte “aprendo” un social –, mi ci sono buttato a pesce sul libro appena edito da Linkiesta Books, La macchina del caos di Max Fisher, un reporter del New York Times che fa parte di un team di ricercatori sul mondo dei social media che nel 2019 sono stati finalisti al Premio Pulitzer. L’ho fatto venendo meno a uno dei miei princìpi, quello di scansare i volumi fin troppo massicci, e questo è un minaccioso tomone da 438 pagine. Solo che è un libro portentoso, dove tutto è informazione intelligenza sostanza. “Portentoso e spaventoso”, mi ha replicato via mail il mio vecchio amico Christian Rocca, il duca dell’attrezzata macchina informativa che ha nome Linkiesta. Sì, spaventoso nel dirci in quali dannate mani siamo noi cittadini del terzo millennio. Siamo l’ultima generazione a ricordarsi com’era il mondo prima dello strapotere dei social, ha detto tempo fa un ex ingegnere informatico appena fuoruscito da Facebook. Una rivoluzione, quella informatica, che a molti apparve come il naturale prosieguo della cultura la più innovante e libertaria dei Settanta. “Noi rifiutiamo: re, presidenti e voto. Noi crediamo in: consenso e codici”, aveva detto nel 1992 uno dei creatori del web. Nientemeno.

Ve la faccio breve. Nel 2006, quando il Facebook creato dall’allora ventiduenne Mark Zuckerberg era ancora giovane giovane, il colosso di Internet Yahoo gli offrì un miliardo di dollari per comprarlo. Era un’offerta allettante. Zuckerberg ci pensò a lungo e disse di no. Ma lasciamo la parola a Fisher: “Nel 2006, l’11 per cento degli americani era sui social. Tra il 2 e il 4 per cento di loro usava Facebook. Meno di dieci anni più tardi, nel 2014, quasi due terzi degli americani usavano i social network, tra cui Facebook, YouTube e Twitter. Quell’anno, a metà del secondo mandato di Barack Obama […], i 200 milioni di americani con un profilo Facebook attivo trascorrevano, in media, più tempo sulla piattaforma che a socializzare di persona (quaranta minuti al giorno contro trentotto). Appena due anni più tardi, nel 2016, quasi il 70 per cento degli americani usava piattaforme di proprietà di Facebook, passandoci in media cinquanta minuti al giorno”. Mai una dittatura politica del Novecento ha avuto una tale presa sul tempo e sulle anime della popolazione che la subiva. Non Benito Mussolini in Italia, non Adolf Hitler in Germania, non Francisco Franco in Spagna, e tanto per fare dei riferimenti. E quanto al suo valore in dollari, quello dell’azienda di Zuckerberg già nel 2017 superava il valore di banche e aziende leggendarie della storia statunitense, altro che il miliardo di dollari offerto da Yahoo.

Ne sta parlando uno che ha sì una carta d’identità ma non un account social, il vero marchio di quel che sei oggi al mondo; e mi stupisco che quando arrivo in un albergo, sapendo con chi hanno a che fare, mi chiedano la prima e non il secondo. Fisher racconta che in America c’era chi si presentava all’allora ventiquattrenne primo presidente di Facebook e si vantava di non stare sui social, al che quello gli ribatteva: “Vedrai che ti raggiungeremo”. E in effetti ne raggiungevano – ossia ne acciuffavano a farli diventare degli utenti – sempre e sempre di più, adoperando ad esempio quella sorta di “dopamina” che sono i like che si affollano a commentare una tua eventuale panzana su Facebook. Personalmente non essendo un tossicodipendente dei like, me ne sto via mail ai giudizi che ci scambiamo con i dieci/quindici lettori dei miei articoli. E del resto sono talmente pochi gli argomenti su cui ho qualcosa da dire. Qualcosa che non sia uno schiamazzo “divisivo”, una frase ingiuriosa volta ad accendere un litigio, una qualche banalità appartenente alla gamma infinita del politically correct. E qui siamo al cuore della faccenda perché, come documenta a puntino il buon Fisher, proprio i commenti più “divisivi”, quelli che inducono gli utenti a bisticci ripetuti e furiosi, quelli che li sollecitano a intervenire a tutti i costi e pronunziare alta e forte la loro opinione sono i più graditi agli algoritmi che fanno muovere Facebook. Purché sempre più utenti per quanto sgangherati accorrano sulle piattaforme da utenti attivi o passivi e ci restino sempre più a lungo, questa è la filosofia guida di chi governa i social. Molto semplice. E difatti ai tempi più acri della pandemia da Covid, i commenti e i siti animati dai No vax avevano sui social una rappresentanza ben superiore al numero dei cittadini effettivamente paladini di quell’opzione. Con il risultato che negli istituti scolastici americani era andato abbassandosi il numero degli studenti che davvero si vaccinavano contro il morbillo o contro la pertosse, un numero talvolta inferiore al 30 per cento degli studenti totali. Potenza del web.

Fisher s’è confrontato a lungo con Renée DiResta, una donna americana laureata in Scienze informatiche e che di mestiere cerca occasioni di investimento nel web da suggerire ai suoi clienti. Nel girovagare su Google si era accorta di quanto forte fosse la presenza dei No vax sui social e più particolarmente come lei fosse continuamente indirizzata dagli algoritmi verso gruppi di disinformazione sanitaria tipo quelli convinti che lo Zika, un virus che andava diffondendosi negli Stati Uniti, fosse stato creato in laboratorio. Gente che definiva lo Zika “un complotto degli ebrei, un progetto per controllare la popolazione”. Gente il cui estremismo sembrava bene accetto dal web e da chi ne fissava le regole. Direte che è solo un caso. Non tanto, perché nel libro di Fisher di esempi consimili ne troverete caterve.

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