Perché dire di no alla codificazione per legge della cultura eutanasica

C’è una zona grigia in cui lo stato non deve né punire né assolvere. Il desiderio di morte non può essere un diritto garantito dalla legge. Ma la tragedia di Dj Fabo resta nell’ambito della sfera privata di una coscienza, Eluana non c’entra

di Giuliano Ferrara 27 Febbraio 2017 alle 19:40 Foglio

Il suicidio assistito è la classica “questione delicata” da trattare. Non so se sono la persona giusta, nella mia nota rozzezza. Ci provo, comunque, e butto giù qualche idea nel giorno triste in cui Dj Fabo si è dato la morte in Svizzera mediante l’assistenza della legge di stato. Primo. Si dice nei giornali… “a otto anni dal caso Englaro”. Eluana Englaro non c’entra. Non era vigile e capace di assumere una decisione comunicabile agli altri, ed è fortemente controverso che avesse nel suo passato espresso un’opinione testamentaria chiara in merito e che, se lo avesse fatto, questa valesse per il qui ed ora della sua condizione all’epoca dei fatti. Quindi la faccenda dell’individuo cosciente che esercita la libertà della sua coscienza è una falsa pista, per quanto la riguarda.

Quelli tra noi che considerarono scandalosa la procedura di soppressione della donna in stato vegetativo affermarono, anche portando una bottiglia d’acqua sul sagrato del Duomo di Milano, sordo e muto, che Eluana Englaro era accudita con amore e carità dalle suore alle cui mani la si voleva strappare per sopprimerla in una clinica; e il padre nella sua campagna ostinata per il diritto a toglierle la vita vegetativa agiva, considerazioni private a parte, in qualità principalmente di figura pubblica allo scopo di promuovere una legge sull’eutanasia che nel caso specifico richiedeva l’ammissione come diritto nemmeno del suicidio ma dell’omicidio assistito. Il comportamento successivo del padre della Englaro, che aveva certamente diritto alle sue idee ma non altrettanto certamente alla messa a disposizione della vita di una persona che era sua figlia, dimostra che avevamo ragione: fu una battaglia ideologica per liberare la legge da quello che potremmo chiamare un pregiudizio pro vita, non un caso di eutanasia o di suicidio assistito. Secondo. Dj Fabo voleva morire. Lo affermava nella sofferenza del suo stato presente, dolore corporale e psichico, ma non poteva procedere da solo, aveva bisogno di assistenza della comunità. La legge italiana impedisce a chiunque di aiutarti a toglierti la vita, quella svizzera invece lo consente. Alcuni sostengono: semplice, introduciamo in Italia la legge Svizzera e mettiamo fine, come lui desiderava, alle sofferenze di chiunque altro sia nella stessa situazione in cui era Dj Fabo o soffra, come nel caso celebre di Lucio Magri, di una inguaribile e irrevocabile tristezza di vivere. Invece non è così semplice. Prendiamo il caso dell’aborto, in cui non si dispone della propria ma dell’altrui vita. La legge lo ha depenalizzato e inquadrato nel suo Sistema sanitario, ha welfarizzato la morte di una persona decisa da un’altra persona e dalla sua comunità (il padre, il medico che esegue eccetera).

Io capisco le obiezioni di fondo della cultura intransigente pro life, ma non manderei mai in galera la donna che abortisce, il medico che esegue, e tutti coloro che collaborano all’evento tragico. Però mi ripugna il fatto incontestabile che l’aborto sia considerato non già una circostanza tragica, ciò che è, bensì un diritto riproduttivo della persona, ciò che non è. Mi ripugna che cultura, società e stato non facciano guerra all’aborto, senza umiliare nessuno ma essendo chiari sulla sua inammissibilità di principio, sulle alternative attive come l’adozione, sulle politiche di dissuasione caritatevole, di cui farebbe parte un monumento come Paola Bonzi della Mangiagalli l’8 marzo (invece è esclusa dalle inutili cerimonie quirinalizie, occasioni mondane) e un richiamo alla pietà nella forma dell’obbligo di seppellire il non-nato soppresso invece che liberarsene come “rifiuto ospedaliero”, la dizione ufficiale che impacchetta l’abortito e lo smaltisce. Non parliamo poi dell’obiezione di coscienza avvilita e come sotto processo proprio in relazione all’idea di aborto come diritto.

Nel caso di Dj Fabo scatta in me un meccanismo morale diverso. La sua è stata una decisione personale, non interpersonale, voleva annientare sé stesso, non un altro essere umano. La sua tragedia resta nell’ambito della sfera privata della sua coscienza. Se non punisco uomini e donne che hanno preso decisioni abortive dalla notte dei tempi, ma non tollero che la depenalizzazione diventi codificazione di un diritto e agisco perché la notte dei tempi finisca e la modernità laica riconosca la libertà di nascere come problema e mobilitazione morale, è ovvio che non si deve punire chi accetti di eseguire i dettami della coscienza di Dj Fabo, che non è in grado di agire da solo con le sue forze. Ma anche qui, dove è in questione alla fine la privatezza di un comportamento cosciente, non accetto che la depenalizzazione debba diventare forzatamente la codificazione di un diritto e di una cultura eutanasica, nella forma del suicidio assistito per legge. C’è una zona grigia in cui lo stato deve astenersi: né punire né assolvere, lo stato non è una chiesa e non deve trasformarsi nello scudo legale di ditte che sul desiderio di morte costruiscono la loro fortuna ideologica e materiale. Di gente che sfrutta il desiderio per prosperare ce n’è tanta, ed è lecito nella società aperta, ma la morte non è un diritto da soddisfare né una merce, è un’occorrenza tragica che può essere in certe circostanze limitate realizzata su sé stessi senza che una legge di stato, un codice funesto, impedisca o autorizzi alcunché.

Categoria Cultura

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