Non si può negare la vita per legge
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Il caso estremo di Dj Fabo, portato in Svizzera per essere sottoposto a suicidio assistito, riapre il dibattito sul fine vita. Ma introdurre il “diritto” al fine vita nella legislazione non vuol dire riconoscere la libertà individuale
di Redazione Foglio 27 Febbraio 2017 alle 11:24
Il caso di Dj Fabo, morto stamattina in Svizzera dopo essere stato condotto lì per essere sottoposto a eutanasia, ha riaperto la discussione attorno alla legge sul fine vita.
In realtà non esiste una connessione diretta tra il caso tragico e le questioni che restano aperte nel dibattito sulla norma, visto che nessun articolo prevede esplicitamente l’autorizzazione del suicidio assistito. L’argomento su cui si discute, la responsabilità del medico nell’assumere la scelta della sedazione profonda, rappresenta una norma che è presente anche nella legislazione Svizzera, dove compete a una commissione di sanitari decidere se sussistono le condizioni per praticare l’eutanasia.
La polemica sui “ritardi” del legislatore nasconde il dato fondamentale, cioè il tema su cui l’iter della legge si è arenato: l’assimilazione dell’idratazione a una terapia e la conseguente possibilità di sospenderla per determinare la morte del paziente. Rifiutare di far morire di sete una persona non è una negazione della cosiddetta “dolce morte”, visto che è difficile di trovare qualcosa di più atroce di questa pratica, che può essere definita dolce solo in base a una visione fanatica e disumana.
D’altra parte tutti i protagonisti del dibattito parlamentare escludono di voler introdurre l’eutanasia, che è rivendicata esplicitamente solo dai Radicali. Forme di terapia palliativa che arrivano fino alla sedazione profonda sono considerate più che sufficienti per evitare a pazienti incurabili una sorte di dolore e di sofferenza senza speranza e senza fine.
Il diritto al suicidio assistito è un’altra cosa: anche se l’insistente campagna mediatica che lo definisce come un atto di civiltà è dilagante, è del tutto ragionevole rispondere “anche no”. Introdurre il “diritto” al suicidio nella legislazione non è affatto una conseguenza inevitabile del riconoscimento della libertà individuale, come si afferma da varie parti con un salto logico occultato dalla retorica del dolore e della pietà.
Quello che, se si superano le controversie sull’idratazione e l’alimentazione artificiali, può essere utilmente introdotto nella legislazione è una decisione accertabile anche da parte di chi non è più in grado di esprimerla direttamente, quello che viene chiamato testamento biologico (che non ha nulla a che vedere col caso del dj che è in grado di esprimersi personalmente). Raccogliere una volontà preventiva (e revocabile) di non sottoporsi all’accanimento terapeutico può rendere meno problematica la decisione finale del medico e togliere ai congiunti responsabilità improprie, ma non può essere un atto che autorizza il suicidio assistito, e sarebbe bene che su questo tema si ragionasse con chiarezza ed equilibrio, senza soggiacere alle semplificazioni indotte dalla pressione mediatica ed emotiva.
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