Studiare non serve a niente: ora lo dice anche il Ministero
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L’istruzione italiana si arrende in via ufficiale: basta la media del sei per accedere alla maturità. Una bandiera bianca dopo anni di invettive contro il ’68 e il 18 politico, di promesse di riforma e di obiettivi sulla media europea. In Italia lo studio non dà cultura e nemmeno un lavoro
di Flavia Perina 21 Gennaio 2017 - 08:30 Linkiesta
Anni di invettive contro la cultura sessantottina, i disastri fatti dal ’68, la piaga educativa dei genitori venuti del ’68, dei professori formati dal ’68, dei libri scolastici prodotti dal ’68 e soprattutto delle scuole del ’68 iconizzate dal surreale istituto sperimentale Marilyn Monroe di Nanni Moretti, dove la foto del presidente della Repubblica è sostituita da quella di Dino Zoff e i professori tengono lezioni su Gino Paoli. Anni di annunci: faremo marcia indietro. Anni di promesse: arriverà il merito. Lo standard europeo. I test Invalsi per certificarlo. Dovranno studiare o rifugiarsi nei professionali.
Anni di minacce agli studenti ciucci, bamboccioni, nullafacenti, nascosti dietro le gonne di mamma, ignoranti. "La festa è finita, vi faremo vedere".
Poi, ecco che all'improvviso arriva la resa all'evidenza. L'inversione di tendenza è impossibile. Combattere contro il corpaccione addormentato della scuola è una guerra persa. Si dovrebbe cambiare tutto, e non si riesce. Si dovrebbero bocciare tutti, e non si può, che l'università già arranca per il declino degli iscritti.
E così dal 2018 basterà la media del sei per essere ammessi all'esame di Maturità, e farà media anche il voto di condotta, e insomma: con un decente 8 per il comportamento si potrà compensare un quattro in matematica e italiano, e veleggiare verso l'esame conclusivo (98 per cento di promossi) in tutta sicurezza, e poi tuffarsi negli studi d'ateneo incrociando le dita.
Oltre i dettagli tecnico-didattici, la resa delle istituzioni al Sei Politico è una beffarda metafora dei fallimenti del mondo adulto, che prima ha criminalizzato gli anni dei Tazebao riducendoli a un racconto di delinquenza e pigrizia, poi ha insultato gli anni della play-station come territorio del disimpegno e del nulla, e infine ha alzato bandiera bianca dicendo: fate un po' come vi pare. Alla selezione ci penserà la vita, o meglio le famiglie, che gli studi "che valgono" ormai sono quelli all'estero e i diplomati del Marilyn Monroe finiranno comunque – salvo eccezioni – nei call center, versione contemporanea del cantiere cui si avviavano i somari di una volta (ora in cantiere ci stanno i rumeni).
Poi, ecco che all'improvviso arriva la resa all'evidenza. L'inversione di tendenza è impossibile. Combattere contro il corpaccione addormentato della scuola è una guerra persa. Si dovrebbe cambiare tutto, e non si riesce. Si dovrebbero bocciare tutti, e non si può, che l'università già arranca per il declino degli iscritti
Tornando indietro, si vorrebbe dire: aridateci il Sessantotto, dove il Sei Politico era di altra natura – rivendicazione "di classe" e non certificazione di ignoranza – e gli studenti, spesso, sapevano di Storia e Filosofia più dei professori, e si ribellavano a un'autorità in quanto un'autorità c'era e si faceva sentire. Ma la deriva nostalgica del Paese è già troppo galoppante, che si rimpiange persino Forlani, e Andreotti, e la Prima Repubblica tutta insieme: non possiamo aggiungerci anche il rimpianto delle assemblee su Ho-Chi-Min o su Marcuse.
Così ci si limiterà ai dati. Nell'Unione Europea il 36 per cento dei trentenni (persone tra 30 e 34 anni) ha un diploma superiore. In Italia, la percentuale è intorno al 20 per cento, una delle più basse dell'Unione. Siamo il fanalino di coda anche per i laureati: nella fascia 30-34 anni solo un quarto ha finito gli studi universitari, ultimi nel Continente. E riusciamo a essere in coda alla classifica anche in un'altra importante statistica, quella dell'occupazione dei diplomati: se altrove vale la vecchia regola "non vuoi studiare? Vai a lavorare", da noi no. Da noi solo il 39 per cento dei giovani diplomati trova lavoro, contro il 72,3 per cento della Germania.
Poi dicono: questi non studiano. Ma la domanda "a che cosa serve la scuola?" che una volta era il rifugio degli asini, oggi pare piuttosto pertinente. A che cosa serve la scuola se comunque non avrò lavoro? E se il lavoro, nel caso lo trovassi, avrà la consistenza di una chiamata a voucher o di un contratto Almaviva? Il Sei Politico prossimo venturo offre una sponda di Stato a questi interrogativi e dice ai diretti interessati: arrangiatevi un po' come volete. Noi più di così non possiamo fare. Ci abbiamo provato, siamo esausti. Spicciatevela da soli, e buona fortuna.
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