Come e perché avanza l’onda populista da Trump a Grillo

Era inevitabile che tutto questo avesse ripercussioni politiche, anche perché, in questi anni, le élite politiche occidentali hanno costantemente promesso una ripresa (in tempi brevi) che non è mai arrivata.

 Aldo Giannuli PALAZZI, formiche.net 13.11.2016

L'analisi di Aldo Giannuli, docente di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Milano

Nel giugno dell’anno prossimo cadrà il decennale dei primi fallimenti bancari americani a seguito del collasso dei mutui subprime; nel giro di sei anni gli istituti falliti negli Usa saranno 481, fra i quali una stella di prima grandezza come la Lehman Brothers. Da quella data non c’è stata alcuna ripresa, se non timidi conati che non hanno mai superato tassi di crescita al 3% in tutto l’occidente. I consumi non si sono mai ripresi e così anche l’occupazione, che ha toccato minimi storici dal 1958 in poi.

Era inevitabile che tutto questo avesse ripercussioni politiche, anche perché, in questi anni, le élite politiche occidentali hanno costantemente promesso una ripresa (in tempi brevi) che non è mai arrivata.

In Austria, fra pochi mesi, si terrà la ripetizione del secondo turno delle elezioni presidenziali, dopo l’annullamento disposto dall’autorità giudiziaria delle votazioni che avevano visto soccombente il nazionalista Hofer per un pelo. Non sappiamo come andrà questo nuovo ballottaggio ma, quel che ci interessa qui, è che per la prima volta dalla fine della guerra, un movimento semi-fascista prende quasi il 50% dei voti in un Paese di lingua tedesca. Bruttissimo segno.

Magari il Fpo ha caratteri più marcati, ma l’avanzata di forze antisistema di destra è una tendenza evidente nel resto d’Europa. Non tutte possono essere definite para-fasciste, e sicuramente non lo sono l’Ukip in Inghilterra o l’Afd in Germania (che però si sta velocemente spostando verso l’estrema destra), mentre di un fascismo abbastanza annacquato possiamo parlare per il Fn della Le Pen. Al contrario, propriamente fascisti sono Alba Dorata in Grecia o Jobbik in Ungheria, e il partito di Orban in Ungheria non è molto distante da essi.

Adesso un’ondata montante del populismo di destra si osserva anche negli Usa vista la vittoria di Donald Trump contro Hillary Clinton. Osserviamo che, seppur più debolmente, si affaccia un’opposizione antisistema anche a sinistra con Podemos in Spagna, l’Alleanza della sinistra verde nordica (Ngla) nei Paesi del nord e in Italia dove, anche se in modo un po’ confuso, questo ruolo è assolto dal Movimento 5 stelle.

Per converso, in Europa sta implodendo l’area dei “partiti della legittimazione” (democristiani, socialdemocratici, liberali e conservatori) che sino a pochi anni fa ottenevano percentuali medie intorno all’85-90%. Oggi, assommati, superano a stento il 50% dell’elettorato europeo. Sintomaticamente, anche negli Usa abbiamo visto affacciarsi un’opposizione di sinistra con la candidatura di Sanders che appartiene al Partito democratico, ma è di orientamento socialista (e negli Usa il socialismo è sempre stato al di fuori del recinto della legittimazione).

Colpisce in particolare il tracollo della socialdemocrazia europea, quasi scomparsa in Austria e in Grecia, in procinto di esserlo in Francia, in forte affanno in Spagna, Germania, Inghilterra, dove registra le percentuali più basse da molti decenni. La socialdemocrazia sembra destinata a non sopravvivere alla sua svolta liberista. I liberali hanno una crisi simile, dopo qualche effimero successo come quello inglese di sei anni fa, e, peraltro, partendo da percentuali ben meno ricche della socialdemocrazia. Resisticchiano un po’ meglio i democristiani, i gollisti e i conservatori, un po’ più a loro agio nel clima liberista.

Il punto è che è in questione la legittimazione dei sistemi di potere consolidati.

Negli anni trenta in Usa, in Inghilterra e nel resto d’Europa, dopo la fine della guerra, si affermò un modello di democrazia sociale, fondato sul compromesso fra capitalismo e organizzazioni del movimento operaio: pace sociale contro redistribuzione della ricchezza e stato assistenziale. Questo ordine è andato in frantumi man mano che è avanzata la controrivoluzione neo-liberista per affermare un nuovo ordinamento basato sul comando della finanza, la delocalizzazione industriale, la precarizzazione di massa, la distruzione del ceto medio, una concentrazione della ricchezza senza precedenti e una globalizzazione pensata in funzione del monopolarismo imperiale americano. Questo nuovo ordine ha celebrato il suo trionfo fra il 1989 e il 1993, ma già 15 anni dopo è entrato in una crisi strutturale dalla quale non riesce a venir fuori. Dopo otto anni di una crisi che ha distrutto risparmi, posti di lavoro, garanzie sociali, falcidiando salari e stipendi, si sta manifestando (per la verità già da tre-quattro anni) la rivolta delle classi subalterne e dei ceti medi che ritirano la delega ai partiti tradizionali di sistema (liberali, socialdemocratici, cattolici, conservatori ecc.) aggregandosi in nuove formazioni abbastanza improvvisate.

Questo è un fenomeno strutturale che non torna indietro: le masse che si stanno spostando possono passare da una formazione antisistema a un altro movimento simile o forse anche passare all’astensione, ma, in gran parte, non pensano affatto di rifluire nella gabbia del sistema dalla quale sono uscite. E questo vale anche per il M5s.

Questo magma attraverserà molte trasformazioni, diventerà cose diverse, ma non sparirà nel nulla. Si rassegnino quelli che sognano l’heri dicebamus: il buon tempo antico è finito. Emerge con prepotenza una domanda politica che eccede i limiti del sistema e minaccia di travolgerlo. Buona parte di questa rivolta si incanala abbastanza naturalmente a destra, sia perché la destra cavalca con naturalezza temi come l’ostilità all’immigrazione o la difesa dell’identità nazionale, sia perché più incline a proporre ricette miracolistiche e “semplici” da propagandare. Questo non è un voto di protesta, ma di rivolta, e non è detto che la rivolta si fermi al comportamento elettorale. C’è da pensare che possa assumere anche il volto del ben più minaccioso “sciopero fiscale”.

L’analisi di Aldo Giannuli (Docente di Storia contemporanea presso l’Università degli studi di Milano) pubblicata sulla rivista Formiche

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