Il Marx illuminista da non cestinare
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Caro Berardinelli, sulla rivoluzione capitalistica il filosofo di Treviri non fu solo funesto e giacobino
di Luciano Pellicani | 08 Maggio 2016 ore 06:18 Foglio
Sul Foglio del 28 aprile, Alfonso Berardinelli mi ha garbatamente rimproverato di aver sottolineato con eccessivo entusiasmo la pagina del Manifesto del Partito comunista nella quale Marx ed Engels esaltano la rivoluzione in permanenza generata dalla espansione planetaria del modo di produzione capitalistico. In realtà , mi sono limitato ad attirare l’attenzione sul fatto – generalmente trascurato o addirittura negato – che, in Marx, sono presenti due anime: quella giacobina, da cui è nato il totalitarismo leninista con tutte le sue catastrofiche conseguenze, e quella illuministica, che vede nello sviluppo delle forze produttive la vera rivoluzione, quella che modifica radicalmente le condizioni materiali di vita delle classi proletarie.
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Infatti, se si getta uno sguardo sulla parabola storica delle società preindustriali, appare evidente che le sollevazioni popolari, anche quando si concludevano con l’abbattimento dello stato dei padroni, erano affatto incapaci di migliorare il livello di vita delle masse proletarie. E appare altresì un’altra costante storica: che una vita “umana” poteva essere vissuta solo da una frazione estremamente ridotta della popolazione: quella dei proprietari. Per questo la proprietà era un elemento fondamentale della morale delle famiglie. Bisognava aumentarla, consolidarla, trasmetterla, poiché, senza di essa, si precipitava irrimediabilmente nella gran massa dei proletari, condannati a una vita di sacrifici, di privazioni e di stenti.
La ragione di ciò è stata a più riprese – e con il massimo vigore – sottolineata da Marx e Engels: il basso livello delle forze produttive. Di qui la loro ferma e costante convinzione che il capitalismo – a dispetto del fatto che si basava sullo spietato sfruttamento del proletariato industriale e sullo scatenamento delle “Furie dell’interesse privato” – costituiva una tappa necessaria e progressiva della drammatica odissea dell’umanità verso la società comunista. Di qui altresì la loro insistenza sul presupposto pratico assolutamente necessario dell’emancipazione dei lavoratori: “Un grande incremento della produzione, poiché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi con il bisogno ritornerebbe il conflitto per il necessario e ritornerebbe la vecchia merda”. Ossia quella tremenda situazione esistenziale che Sartre, nella “Critica della ragione dialettica”, ha magistralmente descritto come “lotta accanita contro la penuria”.
Ebbene: i benefìci prodotti e diffusi dalla rivoluzione capitalistica non possono non essere considerati miracolosi una volta che si tengano presenti le tremende condizioni – materiali e morali – in cui erano condannate a vivere le classi proletarie nelle società preindustriali: permanentemente assediate dalla fame, costrette a eseguire lavori massacranti, colpite dalle malattie endemiche (la tubercolosi, la sifilide, la malaria, eccetera), condannate all’ignoranza più totale e assoggettate alla dura tirannia dei loro dispotici padroni.
C’è di più. C’è che la sinergia fra il mercato, la scienza e la tecnica ha cancellato, nelle società industriali avanzate, i due più micidiali flagelli che, periodicamente e spietatamente, colpivano le popolazioni: le carestie e le epidemie. Le carestie – che mietevano vittime a centinaia di migliaia o, addirittura, a milioni – sono state eliminate grazie alla prodigiosa crescita della produttività del lavoro. Quanto alle epidemie – ancor più devastanti, se possibile, delle carestie – esse testimoniano che l’inquinamento non è certo apparso sulla faccia della Terra con la globalizzazione capitalistica. Al contrario, ha una lunghissima storia. E’ iniziato con la domesticazione degli animali che ha generato i peggiori killer dell’umanità (vaiolo, influenza, malaria, peste, eccetera). Per secoli e secoli – anzi, per millenni – le masse proletarie sono vissute in condizioni igieniche spaventose e in ambienti infestati da terrificanti agenti di morte che solo la moderna scienza medica è riuscita a sconfiggere.
Né è tutto. Si deve alla Seconda rivoluzione l’eliminazione della mortalità infantile che tanti atroci dolori procurava ai genitori, nonché il prodigioso prolungamento della vita umana media, passata da 40 a 80 anni. Inoltre, la crescita delle risorse disponibili ha cancellato l’analfabetismo e ha reso possibile – grazie all’istituzione delle Università di massa e all’abbattimento del costo dei libri – la democratizzazione della fruizione dei prodotti dell’alta cultura (filosofia, letteratura, arte, musica, eccetera), un tempo riservata al “piccolo numero” dei privilegiati.
Infine, sono stati universalizzati i diritti (civili, politici e sociali) attraverso l’allargamento del perimetro borghese dello stato liberale, nato classista e democratizzato dalla energica azione dei “moderni tribuni della plebe” (sindacati e partiti socialisti ). Tutte cose – non lo si ripeterà mai abbastanza – strettamente legate al massiccio uso delle macchine e allo sfruttamento intensivo di fonti di energia (il carbone, l’elettricità, il petrolio) che le società preindustriali ignoravano. In tal modo, l’economia ha cessato di essere un gioco a somma zero ed è diventata un gioco a somma positiva; ossia, un gioco grazie al quale gli enormi profitti degli imprenditori di successo sono accompagnati, di regola, dall’incremento dei salari reali e dalla moltiplicazione delle chances di vita. E sempre allo sviluppo delle forze produttive si deve l’istituzionalizzazione del welfare state, il quale non ha certo fatto sparire le differenze di classe (in termini di potere, di ricchezza e di prestigio), ma, quanto meno, ha garantito un minimo di sicurezza a coloro che sono obbligati a vendere sul mercato la loro unica risorsa: la forza-lavoro. Alla luce di tutto ciò, si può, come fa Berardinelli, trovare eccessiva o, addirittura, “velenosa”, l’esaltazione della rivoluzione capitalistica compiuta da Marx ed Engels?