Nell’ultimo rifugio dei gorilla in Congo: “Difendiamo la natura con i mitra”
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In vent’anni nel parco di Virunga 140 guardie sono state uccise in scontri coi bracconieri. Una guerra nella guerra nel Paese africano più martoriato. Che stanno vincendo i buoni
12/07/2015 PAOLO MASTROLILLI INVIATO A VIRUNGA (CONGO) La Stampa
L’ultima battaglia, in questa giungla da «Cuore di tenebra» che toglie il fiato, è avvenuta qualche settimana fa e ha lasciato a terra undici morti. Guardie forestali, che in teoria avevano firmato per proteggere gli ultimi gorilla di montagna del Congo, e invece si sono ritrovate sotto il fuoco nemico come fossero in guerra. Del resto un anno fa avevano sparato pure al direttore del parco, il principe di origine belga Emmanuel de Merode, perché questo è il prezzo richiesto per difendere Virunga: essere disposti a rimetterci la pelle.
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Siamo in un luogo mitico, forse il più bello del Congo e dell’intera Africa equatoriale. L’angolo dove vivono gli ultimi ottocento gorilla di montagna «silverback», che nell’immaginario occidentale riportano alla mente l’epopea di Tarzan o King Kong, prima ancora del sacrificio di Dian Fossey, la zoologa americana che fu uccisa in Ruanda mentre lavorava per salvarli.
Virunga ha insieme la fortuna e la maledizione di possedere tutto: montagne imperiose come la catena del Rwenzori, che sale oltre i 5.000 metri e fu conquistata nel 1906 dal Duca degli Abruzzi Amedeo d’Aosta; vulcani spenti come il Mikeno, e attivi come il Nyiragongo, col suo lago di lava ribollente più grande al mondo; miniere d’oro tutto intorno; pesci a non finire nel lago Edward, ma anche petrolio da trivellare; fitte foreste, con cui produrre il carbone di contrabbando che finanzia la guerriglia ribelle; animali preziosi come gli okapi, metà zebre e metà giraffe, ormai quasi sicuramente estinti, o ancora vivi per miracolo, tipo i gorilla. Come tutte le cose preziose, il parco è conteso e minacciato.
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Terra contesa
La storia, in più, ha deciso di metterlo al crocevia della guerra che dilania il Congo da oltre vent’anni, e ha fatto tra 5 e 8 milioni di morti. Quando nel 1994 avvenne il genocidio in Ruanda, gli hutu che lo avevano commesso si rifugiarono in Congo per evitare la vendetta dei tutsi, lanciati all’attacco sotto la guida di Paul Kagame. Attraversarono la frontiera qui, nella zona di Goma, che da allora è al centro di una lotta tanto feroce, quanto dimenticata dal resto del mondo. Prima i ruandesi e gli ugandesi si erano alleati con Laurent Kabila, per abbattere il regime di Mobutu. Poi avevano litigato, e quindi nella regione del parco era nata la milizia delle Fdlr, forze hutu legate al governo di Kinshasa per scacciare i ruandesi, e quella dell’M23, cioè forze tutsi che invece difendevano gli interessi di Kigali. Per farla breve prima che perdiate l’orientamento, una guerra continua per bande, crudele e sanguinosa, combattuta dentro gli stessi confini del parco che l’Unesco aveva dichiarato patrimonio Mondiale dell’Umanità. Perciò de Merode e le sue 450 guardie erano diventati soldati, rimasti a difendere Virunga fino alla sconfitta dell’M23, grazie anche all’intervento della missione Onu Monusco.
Se la guerra non fosse bastata, a complicare le cose ci si sono messe anche le risorse naturali. Il petrolio nel lago Edward, in particolare, che la compagnia britannica Soco International ha cercato di trivellare in tutti i modi. Fino a quando il film «Virunga» prodotto da Leonardo DiCaprio non ha denunciato l’assalto, ottenendo una candidatura all’Oscar e la fine delle operazioni di estrazione. Almeno per ora.
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Dentro il vulcano
Così, da circa un anno il parco ha riaperto, nella speranza di attirare i turisti che dovrebbero insieme proteggerlo e aiutare a finanziarlo. Ci si arriva percorrendo un paio d’ore di strada dissestata da Goma, perché le bombe e i cingoli dei mezzi corazzati hanno lasciato solo sassi e buche. Davanti scorrono villaggi dove le case sono ancora capanne di fango, e la gente sopravviveva con l’agricoltura di sussistenza. I bambini scalzi salutano le auto fuoristrada, come se fosse una festa vederle passare invece dei soldati.
Dormiamo nelle tende del campo più alto, 2.100 metri, sovrastato dal vulcano Mikeno. Per capirsi, pare di stare dentro al set del film «Congo» di Michael Crichton. Le stelle, quasi sopra l’Equatore, sembra di toccarle con la mano, e nonostante la scorta armata non ci abbandoni neppure un minuto, i rumori della notte ormai sono solo quelli degli animali e degli uccelli. Al mattino il capo ranger Pierre ci informa che andremo a trovare la famiglia Rugendo, otto gorilla incluso un cucciolo, governati da un maschio dominante silverback che pesa circa 300 chili. Il percorso all’inizio attraversa le piantagioni di mais alte più delle nostre teste, e le capanne di paglia che i soldati dell’esercito congolese usavano come base per combattere i ribelli. Poi però il sentiero si arrampica dentro la giungla, dove si passa solo grazie ai machete della scorta, che tagliano le liane arrivate fino a terra. Il sole si percepisce grazie al caldo, ma intravederlo fra i rami fitti è quasi impossibile.
A tu per tu con i primati
Così, senza accorgerci, finiamo proprio davanti al primo gruppo di gorilla. Dobbiamo indossare la maschera ed evitare ogni contatto, ma siamo a un paio di metri di distanza. Un silverback scende dai rami, osserva e se ne va. Un altro mangia seduto senza scuotersi. Più avanti c’è il gruppo con il cucciolo, che salta come farebbe un bambino sulla schiena del padre paziente. La guardia emette suoni gutturali, come per calmare i gorilla, ma sotto al braccio tiene il fucile e nella mano destra stringe il machete. Vengono qui tutte le mattine, turisti o no, per controllare che la famiglia stia bene e tenere lontani i bracconieri, che ammazzano i gorilla per farne souvenir. La sensazione è la natura al comando, e tu un intruso tollerato. Alla base di Goma ci aspetta de Merode, gentile come un principe, ma vestito come un soldato: «Sono 140 - dice - le guardie uccise nel parco negli ultimi vent’anni. I gorilla erano scesi a 240 negli Anni 90, ma ora la popolazione sta risalendo, se riusciremo a continuare i programmi di protezione». Il 15 aprile del 2014 qualcuno gli sparò, mentre tornava dal parco a Goma, con i documenti sugli impicci combinati dalla Soco: «Non so chi sia stato, l’inchiesta è ancora in corso. Però non mi faccio illusioni: difendere questo parco continuerà sempre ad essere una lotta quotidiana». Ribelli, bracconieri che sparano dagli elicotteri sugli elefanti, pescatori di frodo, compagnie minerarie e petrolifere senza scrupoli: i gorilla sono il pericolo minore, anzi la preda.
L’aiuto dell’Europa
De Merode pensa che per farcela sia essenziale «togliere le risorse economiche ai guerriglieri, e darle agli abitanti della regione». Ad aiutarlo c’è l’Unione Europea, che ha affidato i programmi di cooperazione ambientale prima al piemontese di Canelli Filippo Saracco, e ora al lombardo Daniele De Bernardi. Sul vulcano Nyiragongo, invece, gli studi li guida da anni il professore napoletano Dario Tedesco. Tutte iniziative che l’attivissimo ambasciatore italiano in Congo, Massimiliano D’Antuono, sta cercando di rafforzare. «La sfida - spiega De Bernardi - è dimostrare alla popolazione che il parco è una risorsa anche per loro». Ad esempio costruendo centrali idroelettriche come quella di Mutwanga, e quella che verrà inaugurata a Matebe in dicembre col contributo della Fondazione Buffett. Prima, quando passavano le auto delle guardie forestali, la gente tirava sassi; ora che hanno portato l’elettricità, nei villaggi applaudono. Sperando che non torni la guerra, a spegnere la luce e le speranze di una vita finalmente normale.
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