"ISDS". Come può una sigla far tremare il libero scambio tra Europa e America
- Dettagli
- Categoria: Ambiente
Questo trattato, che pure potrebbe contribuire a rilanciare crescita e occupazione in Europa, sta subendo notevoli ritardi
di Marco Valerio Lo Prete | 06 Aprile 2015 ore 17:32 Foglio
Anche questa settimana, come sempre di lunedì, è andata in onda "Oikonomia", la mia rubrica su Radio Radicale. La scorsa volta mi ero occupato di protezionismo, ispirato da alcuni testi di Guglielmo Ferrero; qualche ascoltatore ha chiesto di dedicare maggiore attenzione al Ttip, l'accordo di libero scambio tra Stati Uniti ed Europa, e così ho fatto. Qui di seguito trovate il testo, mentre cliccando qui potete riascoltare l'audio (questa volta dura poco più di 6 minuti).
La scorsa settimana, evocando la visionaria battaglia anti protezionista di Guglielmo Ferrero, storico e pensatore italiano vissuto tra il 1871 e il 1942 a cavallo tra il nostro paese, la Svizzera e gli Stati Uniti, ho citato il caso delle recenti opposizioni al Ttip, il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti, dal 2013 in via di negoziazione tra Unione europea e Stati Uniti d'America.
Questo trattato, che pure potrebbe contribuire a rilanciare crescita e occupazione in Europa, sta subendo notevoli ritardi sia per l'opposizione sotterranea di alcuni Stati (Germania in primis) sia per la crescente diffidenza mostrata dall'opinione pubblica di alcuni Paesi. In Italia, a dire il vero, non se n'è parlato troppo e così raccolgo volentieri l'invito ad approfondire giunto da più di un ascoltatore. Uno degli aspetti maggiormente contestati di questo accordo di libero scambio è la cosiddetta clausola Isds. "Isds" sta per "Investor to State dispute settlement", in italiano letteralmente "risoluzione delle controversie tra Investitore e Stato". Quella dell'Isds è una clausola tradizionalmente contenuta negli accordi bilaterali d'investimento che consente a un imprenditore straniero che si ritenga penalizzato da una qualche decisione dello Stato ospite, decisione che abbia cambiato le condizioni stabilite nell'intesa iniziale, di cercare una soluzione della controversia con una conciliazione o un arbitrato. Per dirla con una formula molto semplificata, siamo davanti alla possibilità per alcune imprese di fare causa direttamente agli Stati, fuori dalle aule dei normali tribunali degli stessi Stati. La Philip Morris, per esempio, nel 2011 ha deciso di ricorrere contro la decisione del governo australiano di uniformare i pacchetti di sigarette per disincentivarne l'acquisto e tutelare la salute; persi tutti i ricorsi nelle aule di tribunale, la Philip Morris sta ora tentando di rivalersi contro Canberra grazie a una clausola Isds di un accordo tra Australia e Hong Kong, lamentando la violazione della proprietà intellettuale e del diritto a utilizzare il proprio marchio.
Si tratta davvero di una sconvolgente novità? Non esattamente. Alcune crisi finanziarie alla metà degli anni 80 spinsero molti paesi in via di sviluppo, che precedentemente sulla scorta della decolonizzazione avevano vagheggiato la promozione di un nuovo ordine economico internazionale alternativo, a ricorrere in maniera crescente ad accordi bilaterali di promozione e protezione degli investimenti stranieri, così da favorire il flusso di questi ultimi verso i paesi in via di sviluppo. Considerata pure l'incertezza del diritto internazionale consuetudinario in queste materie, le leadership dei Paesi in via di sviluppo tentarono di blandire gli investitori stranieri (tendenzialmente occidentali ma non solo) offrendo tutele a fronte di alcuni rischi: pensiamo ai casi estremi, ma tutt'altro che rari, di nazionalizzazioni o espropri repentini.
Fin dal 1965, d'altronde, era già nata nell'ambito della Banca mondiale la Convenzione istitutiva dell'Icsid, cioè l'International centre for the settlement of investment disputes, che "assolve al ruolo di provvedere alla soluzione delle controverse sugli investimenti insorte tra Stato ospite e investitore privato straniero attraverso due possibili procedure: la conciliazione e l'arbitrato" (Elena Sciso, "Appunti di diritto internazionale dell'economia", Giappichelli). E' nell'ambito delle regole dell'Icsid della Banca mondiale che si svolge buona parte degli arbitrati avviati grazie alle clausole Isds.
Questo dunque per quanto riguarda l'aspetto storico. Analizziamo ora la dimensione del fenomeno, partendo dai delle Nazioni Unite. Nel 2014 in tutto il mondo sono state avviate 42 procedure arbitrali sulla base di clausole Isds, cioè 42 casi in cui alcune imprese private hanno tentato di rivalersi su Stati sovrani, meno delle procedure avviate nel 2013 (59) e nel 2012 (54), in linea invece con la media dei casi sollevati nel primo decennio del XXI secolo. Gli arbitrati o le conciliazioni istruiti in sede Icsid-Banca mondiale sono stati 33, quelli fuori dall'Icsid 9 (di cui 6 nella Commissione per il commercio dell'ONU chiamata Uncitral e 2 presso la Camere di commercio di Stoccolma), anche se - spiega l'Onu - i casi potrebbero essere di più di quelli censiti perché alcuni sarebbero volutamente tenuti in sedi confidenziali. Dal 1990 al 2013, secondo una ricerca dello European policy information center, il numero di ricorsi in base alle clausole Isds si è sestuplicato; il punto però è che nche i flussi di investimenti diretti esteri sono cresciuti di sei volte, crescendo dunque le occasioni di controversia.
Perciò difficilmente la presunta esplosione quantitativa del fenomeno può spiegare l'improvvisa fiammata d'interesse critico dell'opinione pubblica. Un'altra tesi è che questi meccanismi siano tali da perpetrare il dominio dei colossi privati occidentali sul mondo in via di sviluppo. E' indubbio che negli ultimi tre decenni gli investitori dei paesi industrializzati siano stati i principali utilizzatori di questo sistema Isds, fino all'80% dei casi, ma d'altronde sono stati sempre loro a investire il più delle volte al di fuori dei loro confini. Tra l'altro la novità è che negli ultimi anni è cresciuto moltissimo il numero di vertenze che coinvolgono soltanto attori del mondo d'antica industrializzazione; nel 2013 il 42% dei casi registrati di arbitrato investitore-stato coinvolgeva parti soltanto europee, e ancora il 25% nel 2014. Ad oggi il 16% di tutti i 400 casi aperti riguardano controparti esclusivamente europee.
Spesso dimenticando che conciliatori e arbitri sono nominati dalle parti coinvolte nella controversia, si tende poi ad avvalorare da più parti la tesi di un'implicita faziosità pro imprenditori di questi meccanismi arbitrali. In realtà l'Unctad - peraltro fautrice di una riforma del sistema attuale - ha vagliato, al 2014, la conclusione di 356 arbitrati conclusi; da cui emerge che circa il 37% delle decisioni finale è favorevole agli Stati sovrani, il 25% a favore degli investitori; nel 28% dei casi si arriva a una conciliazione.
Tutto questo non per dire che le clausole in questione non sollevino criticità anche per la limitazione che comportano della sovranità democratica nazionale. Ma tra Stati Uniti ed Europa, come sostenuto da studiosi attenti, si potrebbero facilmente trovare soluzioni che rassicurino le opinioni pubbliche e gli investitori, senza cedere alla revanche protezionista. E senza dimenticare che l'Italia, col sistema malato della giustizia civile e penale che si ritrova, rischia di essere l'ultimo paese a potersi lamentare se qualche investitore americano vorrà cercare giustizia fuori dalle aule dei nostri tribunali.