AMBIENTE Coldiretti ha un “piano” per lasciare l’Italia senz’acqua. Il 60% di pioggia caduta evapora.
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L’organizzazione degli agricoltori ripete che bisogna raccogliere il 50 per cento di tutta la pioggia. Se questo obiettivo fosse raggiunto, gli effetti sarebbero disastrosi
10 APRILE 2024 Carlo Canepa, pagellapolitica.it lettura11’
In queste settimane Coldiretti sta rilanciando una vecchia proposta che lascerebbe l’Italia senz’acqua se fosse realizzata alla lettera. Tutto parte da una premessa: secondo l’organizzazione che rappresenta gli interessi degli agricoltori, il nostro Paese deve accumulare e mettere da parte sempre più acqua piovana perché al momento ne butta via troppa. «Il fatto che l’Italia riesca a recuperare una parte minima dei 300 miliardi di litri di acqua che ogni anno cadono sul territorio nazionale rappresenta uno spreco inaccettabile», ha dichiarato il 21 marzo il presidente di Coldiretti Ettore Prandini, il giorno prima della Giornata mondiale dell’acqua. Secondo l’organizzazione, con i suoi invasi l’Italia raccoglie solo l’11 per cento della pioggia, mentre il restante 89 per cento «finisce in mare».
Grazie a un «grande piano nazionale» – ha scritto Coldiretti – bisogna «arrivare a raccogliere il 50 per cento dell’acqua piovana che potrebbe essere utilizzata per una molteplicità di altri utilizzi, riducendo il prelievo di quella potabile». Nel 2022 e nel 2023 questo appello era già stato rivolto da Prandini ai partiti e ai politici, in particolare al ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini.
In questo piano, annunciato da tempo, c’è però un grosso problema di fondo. Paradossalmente, se davvero si riuscisse a trattenere la metà di tutta la pioggia che cade ogni anno sull’Italia, il nostro Paese rimarrebbe senz’acqua, con enormi danni per l’ambiente e l’economia. Al di là della fattibilità di questa iniziativa, varie cose poi non tornano nei numeri presentati da Coldiretti.
Il “piano” che non c’è
Partiamo dal contenuto del piano di Coldiretti, che è stato realizzato insieme all’Associazione nazionale consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue (Anbi). Questi consorzi gestiscono una parte delle infrastrutture per l’irrigazione e per la regolazione delle acque in Italia, come i canali irrigui e gli invasi.
È almeno dal 2021 che si sente parlare di questo piano della Coldiretti e di Anbi, rinominato “piano invasi” o “piano laghetti”, a seconda delle occasioni. Ma nonostante gli annunci delle due organizzazioni, le varie audizioni in Parlamento e i numerosi articoli pubblicati sui quotidiani in questi anni, finora non è stato reso pubblicamente disponibile un testo con tutti i dettagli del piano. In maniera piuttosto generica, Coldiretti e Anbi hanno promosso la realizzazione entro il 2030 di circa 10 mila invasi artificiali di piccole e medie dimensioni, di cui 4 mila gestiti dai consorzi e 6 mila dalle aziende agricole. L’obiettivo è aumentare la quantità di pioggia raccolta e usarla per scopi diversi, tra cui l’irrigazione nei campi, la produzione di energia, gli interventi anti-incendio e – in caso di necessità – l’uso potabile.
Abbiamo scritto agli uffici stampa di Coldiretti e Anbi per avere il testo ufficiale del piano. Al momento della pubblicazione di questo articolo, nonostante la reiterata richiesta, l’organizzazione degli agricoltori non ci ha ancora risposto. Anbi, invece, ha spiegato a Pagella Politica che a oggi non esiste un documento o una presentazione ufficiale del piano. Il motivo, ci è stato detto, è che le due organizzazioni vogliono presentare il piano ufficiale in un momento istituzionale, per esempio una conferenza stampa o un convegno, con la presenza di rappresentanti del governo e del Parlamento.
Dunque, non sono noti i dettagli della «strategia» di Coldiretti che, a detta sua, permetterà di «recuperare il 50 per cento dell’acqua piovana per poi restituirla alle aziende agricole, alle famiglie e alle imprese». Qui iniziano i problemi, o meglio: si fanno più gravi.
Che cosa dicono i numeri
Senza entrare nella fattibilità tecnica del piano, ha davvero senso la proposta di raccogliere la metà dell’acqua piovana che cade ogni anno in Italia? Dai numeri, la risposta sembra essere un secco no.
Secondo le stime dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA), nel trentennio tra il 1991 e il 2020 l’afflusso annuo medio di pioggia in Italia è stato di circa 285 miliardi di metri cubi. Questo numero è vicino ai «300 miliardi» citati da Prandini, ma il presidente di Coldiretti ha parlato di litri e non di metri cubi, una differenza non da poco. A un metro cubo d’acqua corrispondono infatti mille litri d’acqua: insomma, il numero indicato da Prandini è sbagliato di tre zeri. Ma su questo si può soprassedere.
Sempre secondo l’ISPRA, nel 2022 si è toccato il minimo storico annuo di precipitazione con circa 217 miliardi di metri cubi, il 24 per cento in meno rispetto alla media annua del trentennio tra il 1991 e il 2020. Nel 2023 l’afflusso annuo in Italia è stato vicino alle medie annue di riferimento, ma questo è stato dovuto in gran parte al volume di piogge che si è riversato nel mese di maggio, stimate in circa 49 miliardi di metri cubi. Questo valore ha causato le tragiche alluvioni in Emilia-Romagna e, a livello nazionale, è stato pari a più del doppio del volume di piogge che in media caratterizza il mese di maggio, stimato in circa 23 miliardi di metri cubi.
È fondamentale capire che non tutta la pioggia che cade rimane a terra per poi finire in mare.
Nei trent’anni presi in considerazione da ISPRA, il 53 per cento dell’acqua piovana è ritornato in atmosfera a causa dell’evaporazione, per esempio dal terreno o dagli specchi d’acqua, e a causa della traspirazione della vegetazione. La combinazione tra evaporazione e traspirazione è chiamata, appunto, “evapotraspirazione”.
Il restante 47 per cento della pioggia è rimasto sul terreno, alimentando le falde acquifere, i fiumi, i laghi artificiali e quelli naturali. Di questo 47 per cento, il 21 per cento si è infiltrato nel sottosuolo, mentre il 26 per cento è rimasto in superficie.
Le percentuali appena viste valgono, per così dire, in una condizione media: di recente la situazione è cambiata, e cambierà ancora. «Negli ultimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, le temperature sono state ben superiori alle medie registrate in passato e di conseguenza la quota di evapotraspirazione è aumentata notevolmente», ha spiegato a Pagella Politica Stefano Mariani, ricercatore dell’ISPRA. Mariani è un esperto del ciclo dell’acqua, detto anche “ciclo idrologico”, e studia la gestione sostenibile delle risorse idriche.
Secondo ISPRA, nel 2023 quasi il 60 per cento della pioggia è tornata in atmosfera a causa dell’evapotraspirazione, mentre nel 2022 questa percentuale è stata di circa il 70 per cento. Insieme al calo delle precipitazioni, questo fenomeno ha contribuito a raggiungere il minimo storico annuo dal 1951 a oggi di disponibilità di risorsa idrica, ossia quella disponibile per diversi usi (civile, agricolo, industriale, ecc.) e per il sostentamento degli ecosistemi. Stiamo parlando di 67 miliardi di metri cubi di risorsa idrica a livello nazionale, con una riduzione di quasi il 50 per cento rispetto al valore medio annuo di disponibilità trentennio per il tra il 1991 e il 2020.
Entrambe le percentuali di acqua evapotraspirata negli ultimi due anni sono superiori al 53 per cento visto in precedenza, e questo non è un caso. Secondo i dati del Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente (SNPA), il 2022 e il 2023 sono stati rispettivamente l’anno più caldo e il secondo anno più caldo registrati in Italia a partire dal 1961. Per molte zone d’Italia il 2023 è stato ancora più caldo del 2022. «Se continuiamo con questo andamento, ci troveremo sempre ad avere grosse quote di evapotraspirazione e di conseguenza meno acqua piovana che rimane sul terreno e va ad alimentare fiumi, laghi e acque sotterranee», ha aggiunto Mariani.
Le conseguenze disastrose
Sulla base dei numeri appena visti, se prendessimo per buono l’obiettivo dichiarato da Coldiretti e Anbi, bisognerebbe raccogliere e trattenere negli invasi tutta l’acqua che, una volta piovuta dal cielo, non evapora o traspira dalla vegetazione. Se fosse raggiunto questo obiettivo, i danni sarebbero enormi per gli habitat naturali e non solo. «Se venisse invasato il 50 per cento di tutta la pioggia che cade in un anno in Italia, significherebbe che non avremo più acqua a disposizione per alimentare i fiumi, i laghi e le acque sotterranee», ha sottolineato Mariani. Per fare un esempio concreto, questo causerebbe gravi problemi all’approvvigionamento di acqua potabile, che finirebbe tutta negli invasi. Secondo Istat, oltre l’80 per cento dell’acqua potabile prelevata ogni anno in Italia proviene dalle acque sotterranee, ossia da pozzi o sorgenti.
«Invasare tutta la pioggia avrebbe un impatto non solo sugli ecosistemi, ma anche sugli altri usi dell’acqua», ha aggiunto il ricercatore dell’ISPRA. «Si pensi a che cosa è successo nel 2022 al fiume Po, in cui sono state registrate portate inferiori ai valori caratteristici di magra. Questo ha comportato nelle zone del delta del fiume problematiche relative all’uso della risorsa idrica per fini agricoli e idropotabili legate alla risalita del “cuneo salino”». Il “cuneo salino” è il fenomeno per cui l’acqua del mare avanza dentro al corso di un fiume. Questo fenomeno si verifica soprattutto quando la portata del fiume è troppo debole, per esempio a causa della siccità, e l’acqua salata del mare riesce a risalire il suo corso, rendendo le acque inutilizzabili per l’agricoltura e non solo.
Questo scenario – lo ribadiamo – varrebbe se la percentuale dell’acqua piovana che evapora o traspira dalla vegetazione rimanesse intorno al 50 per cento. Ma come abbiamo visto, l’impatto combinato dei cambiamenti climatici sulle temperature e sul ciclo idrologico rischia di far aumentare notevolmente questa percentuale e di far diminuire la disponibilità di risorsa idrica, specie nelle aree del Mediterraneo e nel Sud Italia. Di conseguenza, per rispettare l’obiettivo dichiarato da Coldiretti e da Anbi, bisognerebbe trattenere una parte dell’acqua che normalmente evapora, rendendo il progetto ancora più implausibile.
Un’altra statistica evidenzia l’implausibilità del piano di Coldiretti e Anbi. A grandi linee, il 50 per cento della pioggia che cade in Italia ogni anno ammonta a circa 140 miliardi di metri cubi di acqua. A oggi esistono stime ufficiali del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti solo per il volume invasabile nelle cosiddette “grandi dighe”, ossia quelle con un volume di invaso superiore a un milione di metri cubi o con una diga alta più di 15 metri. Il volume invasabile nelle “grandi dighe” italiane ammonta a meno di 12 miliardi di metri cubi: stiamo parlando di una quantità pari a meno di un decimo di tutta quella che il piano di Coldiretti e Anbi punta a raccogliere (qui non ci avventuriamo nello stimare i costi di realizzazione e di gestione di un aumento considerevole della capacità di nuove “grandi dighe”). Non esistono invece stime complete e ufficiali su scala nazionale del volume invasabile nelle cosiddette “piccole dighe”, che sono di competenza regionale.
In ogni caso, da un punto di vista scientifico «è scorretto far passare il messaggio che l’acqua piovana non raccolta negli invasi viene sprecata e “gettata in mare”, come si sente spesso ripetere», ha detto Mariani. «Non è così: questo processo fa parte del ciclo dell’acqua».
Immagine 1. Una rappresentazione schematica del ciclo dell’acqua – Fonte: ISPRA
Immagine 1. Una rappresentazione schematica del ciclo dell’acqua – Fonte: ISPRA
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La premessa scorretta
Nel piano di Coldiretti c’è un ulteriore problema. Da anni l’organizzazione degli agricoltori e Anbi ripetono che l’Italia raccoglie negli invasi solo l’11 per cento della pioggia, ma come abbiamo spiegato in passato, questa percentuale è frutto di un errore.
ISPRA e Istat non forniscono i dati su quanta acqua piovana viene recuperata con gli invasi. Da dove viene quindi la stima sull’«11 per cento»? L’anno scorso Anbi ha detto a Pagella Politica che questa stima è stata fatta oltre cinquant’anni fa, all’inizio degli anni Settanta. All’epoca si era stimato che sull’Italia piovessero ogni anno circa 300 miliardi di metri cubi di acqua (quantità che, come abbiamo visto, è calata negli ultimi anni). Di questi 300 miliardi di metri cubi, oltre 120 miliardi erano considerati “risorse potenziali disponibili” e potevano essere messe a disposizione di infrastrutture artificiali. A loro volta, però, solo 55 miliardi di metri cubi (poi abbassati a 52 miliardi alla fine degli anni Ottanta) erano considerati “utilizzabili”, ossia potevano essere usati per vari scopi. E qui arriva il punto centrale: cinquant’anni fa si stimava che solo l’11 per cento di questi 55 miliardi di metri cubi era trattenuto negli invasi, non l’11 per cento di tutta la pioggia.
ISPRA e Istat, invece, non fanno stime su quanta sia la pioggia “utilizzabile” tra quella che cade ogni anno sul nostro territorio. Questa valutazione implicherebbe infatti «considerazioni di varia natura: tecnica, economica, sociale, ambientale e politica», che dunque rischiano di non essere del tutto oggettive. In più ISPRA ha ribadito che «anche nell’ipotesi estrema che sia tecnicamente ed economicamente» considerata come tutta recuperabile, l’acqua a disposizione del territorio «non potrà mai essere utilizzata totalmente per i vincoli di carattere ambientale che è necessario considerare per la salvaguardia degli ecosistemi».
Prendiamo dunque in considerazione questo secondo scenario: quello secondo cui Coldiretti e Anbi vorrebbero portare dall’11 per cento al 50 per cento la raccolta non di tutta la pioggia, ma solo di una sua piccola parte. Innanzitutto c’è il solito problema: non conoscendo i dettagli del “piano invasi” (o “laghetti”), è impossibile valutarne la sensatezza anche in questa versione ridimensionata.
Il problema della percentuale
Al di là dei dettagli, è l’approccio stesso ad avere dei limiti, in particolare nell’insistere su una percentuale arbitraria. «Non essendoci un piano concreto è difficile analizzare questa iniziativa: non abbiamo i numeri sulla base dei quali dire che il piano è valido o no. Però nel momento in cui si fissa una percentuale, viene da chiedersi: perché il 50 per cento sì e il 49 per cento no? Oppure se la fissiamo al 50 per cento, perché non facciamo il 52 per cento?», si è chiesto Mariani. Secondo il ricercatore dell’ISPRA, «è proprio l’idea di fissare una percentuale che è problematica». «Nel momento in cui si fissa una percentuale, magari sulla base delle necessità dell’agricoltura, questa soglia va bene per un singolo utilizzo, ossia quello agricolo. Così però non si fa un ragionamento né sull’uso globale dell’acqua né su quanta acqua effettivamente sarà disponibile nel futuro», ha sottolineato Mariani.
Bisognerebbe poi tenere in considerazione gli sviluppi sul medio e lungo periodo, senza concentrarsi esclusivamente sull’oggi. «Con le percentuali si ragiona sempre sulla situazione attuale, che quasi certamente cambierà nei prossimi anni, visto che sta già cambiando. Non si fa un ragionamento sul fatto che in futuro avremo a disposizione meno acqua e dovremo essere in grado di gestirla meglio per tutti gli usi che dobbiamo fare», ha aggiunto il ricercatore dell’ISPRA.
In alcune occasioni Coldiretti e Anbi hanno fatto paragoni con altri Paesi, come la Spagna, dicendo che riescono a raccogliere più acqua di noi. «Ma anche qui non è chiaro quali numeri sono confrontati e se il confronto è valido, ossia se è fatto tra misure confrontabili tra loro. Le necessità di un Paese poi non sono necessariamente le stesse del nostro Paese», ha commentato Mariani. «Mettendo da parte il dibattito sulle percentuali, l’idea di potenziare gli invasi o di migliorare quelli già esistenti non è sbagliata a priori. Questa non è però l’unica soluzione, ma si riesce davvero a valutarla nel momento in cui si ha un piano concreto, dati alla mano, sulle esigenze attuali e quelle future, sulla base di numeri».
Un piano per l’ottimizzazione della raccolta dell’acqua piovana dovrebbe tenere conto di molti altri aspetti. «Nel momento in cui ci si trova in una situazione di scarsità di risorse idriche, dovuta agli impatti dei cambiamenti climatici, bisogna domandarsi se le pressioni che si stanno facendo sui corpi idrici, come i prelievi, sono sostenibili oppure no», ha concluso. «Bisognerebbe mettere in atto una serie di azioni che non possono basarsi solo sul piano di fare nuovi invasi. Per esempio bisognerebbe gestire in maniera migliore l’acqua che già abbiamo a disposizione e adottare sistemi per non sprecare l’acqua e riutilizzarla».
Ricapitolando: Coldiretti e Anbi ripetono che bisognerebbe raccogliere il 50 per cento di tutta la pioggia che cade ogni anno sul territorio italiano. Al momento non c’è un piano ufficiale per provare a raggiungere questo obiettivo, che è comunque implausibile e che, se fosse raggiunto, creerebbe danni enormi. Anche ridimensionando gli annunci delle due organizzazioni, ci sono molti limiti nel fissare una percentuale arbitraria, che poggia su stime vecchie di cinquant’anni e mal interpretate.