Quel terribile amore dei giovani per l'apocalisse
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Dall'Ottocento al Sessantotto fino a Greta. Il mondo è sempre andato avanti nonostante ogni nuova generazione cercasse di distruggerlo con le sue speranze
di Antonio Gurrado 27.9. 2019 ilfoglio.it
I giovani scesi in piazza quest’oggi hanno protestato in favore dell’apocalisse. Presentandola alle generazioni precedenti come l’opzione più verosimile, se non quasi inevitabile, hanno manifestato una salda convinzione nella fine del mondo ormai prossima, addirittura con date precise arbitrariamente sventolate dai cartelloni (entro il tale anno i ghiacciai non ci saranno più, entro il tale anno non ci sarà più acqua, entro il talaltro non ci sarà più aria). Hanno messo in contrasto con l’indolenza degli adulti la propria fede incrollabile nel fatto che l’apocalisse avverrà, perché lo dice la scienza, auspice Greta Thunberg, a meno che non rinneghiamo tutti le bottigliette di plastica e iniziamo a viaggiare in barca a vela, certo, ma quest’aspetto è secondario. Il rimedio dipende dal male, pertanto i ragazzi che oggi hanno scioperato per il clima lo hanno fatto allo scopo di sbattere davanti al muso degli adulti l’irrimediabilità del disastro. Il tono recriminatorio di Greta all’Onu ne è un esempio fin troppo eclatante.
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La protesta giovanile è da sempre intrisa di millenarismo: non si limita ad annunciare la prossima fine del mondo ma sembra bramarla, invocare il cupio dissolvi. Ai tempi della Convenzione, pochi anni dopo la Rivoluzione francese, protestavano contro un mondo in sfaldamento gli eccentrici damerini della jeunesse dorée che, contrariati dalla violenza che aveva segnato il destino dell’ancien régime, acceleravano quel medesimo sfaldamento dandosi alla violenza indiscriminata e gratuita contro giacobini e sanculotti. Dopo il Congresso di Vienna, gli studenti piemontesi esultavano a teatro (erano pochini in realtà: quattro) perché lontane notizie di moti poi rivelatisi fallimentari sembravano presagire il crollo di equilibri internazionali faticosamente raggiunti a costo di decenni di sangue e mesi di trattative diplomatiche. In tempi più recenti, il Sessantotto fu una sorta di parricidio sommario, in cui giustiziare la generazione precedente per avere portato in salvo l’occidente dalla guerra più orribile della storia e averlo anzi dotato di un certo benessere: dando uno sguardo alle cifre riguardo alla vendita di elettrodomestici, ci si accorge che la contestazione giovanile esplode nel momento in cui buona parte dei genitori aveva procurato alla casa un frigorifero e una lavatrice, sintomi indubbi di uno stanziamento confortevole nel mondo, quindi del desiderio dei padri di restarci a lungo. I figli non sono d’accordo. La migliore rappresentazione narrativa di questa dinamica è nella “guerra portata in casa” dalla figlia del protagonista di "Pastorale americana" di Philip Roth.
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La manifestazione di oggi si colloca nella stessa scia. Non solo patrocina il rifiuto cumulativo del mondo, ossia dei comfort che ci consentono di viverci decentemente (l’auto, l’aereo, la bottiglietta di plastica), ma lo fa annunciando che presto quel mondo non potrà più esistere per forza di cose. La contestazione giovanile non fa che premere sull’acceleratore; è stato così nel Sessantotto, è stato così nel Settantasette. Il compito dei giovani, quando protestano, sembra porre gli adulti di fronte a un’alternativa secca: o l’adesione agli ideali nel nome di cui i giovani stanno protestando, oppure il baratro della fine del mondo per autocombustione, una sorta di rogo delle colpe degli adulti che i giovani osservano con la sinistra soddisfazione di averli avvertiti.
L’apocalisse, etimologicamente, è rivelazione, disvelamento; proprio come nella fiaba di Andersen sui vestiti nuovi dell’imperatore, in cui solo il personaggio più giovane ha ingenuità e incoscienza sufficienti a fare notare che il sovrano è nudo. La fiaba è del 1837, cioè nel pieno del periodo in cui l’Europa iniziava a subire le crepe aperte dalla generazione che, essendo nata durante l’età napoleonica, reputava la restaurazione un tentativo innaturale e ipocrita di tenere in vita un mondo le cui dinamiche politiche, sociali ed economiche erano defunte da tempo. Forti di queste caratteristiche tipiche dell’età, i giovani si sentono privilegiati nel potere impunemente sbattere in faccia agli adulti la realtà di cui questi ultimi non vogliono o non possono accorgersi, e inevitabilmente si ammantano del diritto alla profezia con tanta compenetrazione da finire per credere veramente a ciò che annunciano.
Tuttavia il millenarismo della protesta giovanile affonda forse le proprie radici in una contraddizione atavica. Da un lato i giovani si nutrono di futuro, quindi intendono costituire la forza propulsiva dell’innovazione che scardina i limiti imposti dal passato. D’altro canto però i giovani, proprio in quanto tali, desiderano essere giovani; desiderano cioè essere ultimi, e non vedono quali generazioni potrebbero scalzarli in futuro. Guardate i cartelloni dei ragazzi che manifestano oggi: rinfacciano ai genitori di avere rovinato il loro mondo, rivendicano il diritto a un ambiente per il loro futuro, ragionano del domani come se non ci fosse dopodomani e loro fossero padroni assoluti di ciò che oggi protestano di possedere ancora. Sono come il piccolo Hanno Buddenbrook, che alla fine del romanzo di Thomas Mann vede il registro su cui la famiglia tiene l’albero genealogico e, per sottolineare il proprio nome, tira lungo tutta la pagina una riga che preconizza la totale assenza di possibili eredi.
Il desiderio più profondo dei giovani è che non venga nulla dopo di loro; vogliono restare giovani, ossia che il tempo si fermi e il mondo finisca. Per questo a ogni giro annunciano l’apocalisse. Il mondo però è sempre andato avanti nonostante, di generazione in generazione, i giovani cercassero di distruggerlo con le loro speranze.