VIGNETI OGM PER RIDURRE I PESTICIDI? E' SOLO UNA QUESTIONE DI NOMI
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Lo scorso Ottobre e Novembre, il mondo del vino, l'agricoltura, la ricerca e la politica sembrano essere stati attraversati da pulsioni e prese di posizione inattese quanto interessanti.
09 Dicembre 2015 Gianpaolo Paglia www.stradedelcibo.it
lo scorso Ottobre e Novembre, il mondo del vino, l'agricoltura, la ricerca e la politica sembrano essere stati attraversati da pulsioni e prese di posizione inattese quanto interessanti.
“In Italia [...] stiamo per sostenere iniziative di ricerca in laboratorio, a legislazione vigente, con tecnologie più sostenibili. Parlo di strumenti come il genome editing e l'approccio cisgenico...” così il Ministro dell'Agricoltura Martina in una lettera all'Espresso.
“Se i ricercatori non verranno autorizzati ad applicare le nuove tecniche genetiche, le nostre vigne non hanno futuro, attaccate dal caldo, dai parassiti…” afferma Angelo Gaja, nel consueto stile della lettera aperta a tutto il mondo del vino.
Stanno davvero così le cose, e di cosa stiamo parlando esattamente? Proviamo a dare uno sguardo all'argomento.
Secondo una ricerca francese, ampliamente citata nel corso degli ultimi anni (pubblicata dal gruppo ambientalista francese Pesticide Action Network), in Europa la superfice coltivata a vite rappresenta il 3% della SAU (superfice agricola utilizzabile), e in totale assorbe da sola il 60% dei pesticidi. Questo dato eclatante basta da solo a spiegare come il miglioramento genetico della vite sia effettivamente risultato inefficente riguardo la resistenza alle maggiori patologie, e come l'impatto sull'ambiente sia importante.
La storia delle patologie vegetali meriterebbe di essere studiata nelle scuole, tanto è stato l'impatto di queste nella vita di milioni di persone. Tutti conoscono la storia della peronospora della patata, che a metà dell'800 distrusse quasi totalmente il principale alimento di supporto della popolazione irlandese, causando una carestia che si stima portò a delle migrazioni di massa che causarono la diminuzione del 20% della popolazione. Molti altresì conoscono almeno a grandi linee la storia della Fillossera, che dagli anni della sua scoperta, circa 1880, causò la quasi scomparsa della viticoltura e del vino come lo conoscevamo, e che fu salvata da un intervento radicale quando all'epoca contestato (con ragioni simili a quelle di chi oggi si oppone agli OGM), ovvero l'uso di portainnesti di vite americana. Quello che non molti conoscono invece è che nello stesso periodo altre due piaghe di importazione americana colpirono la viticoltura: la Peronospora, nel 1887 e l'Oidio nel 1845. Due fenomenali avversità della vite, ancora oggi responsabili di quasi tutta la chimica versata nei vigneti.
Queste tre malattie, che sono state anche definite le “pesti americane” sono uno dei frutti avvelenati e più precoci della globalizzazione. La Vitis vinifera (l'uva da vino), di origine europea, non era mai venuta in contatto, in tutta la sua storia multimillenaria (7/8.000 anni) con tali patogeni. Gli antichi romani, i galli, e i monaci cistercensi del medioevo non la conoscevano. La vite europea non si era potuta evolvere e sviluppare delle difese naturali, come invece era avvenuto con le viti di origine americana, resistenti ma poco adatte alla produzione di vini qualità. Fortunatamente, nello stesso periodo le conoscenze della chimica crescono a ritmi vertiginosi, e cosi' anche la loro applicazione all'agricoltura. Di fatto, la chimica nella vite prende il posto del miglioramento genetico. Efficace, facile, abbracciata con entusiasmo dagli agricoltori. La consapevolezza ambientale, il biologico, il biodinamico sono ancora tutti da venire.
In realtà la vite ha delle caratteristiche che la rendono particolarmente “scontrosa” per il miglioramento genetico tradizionale. Intanto la maggior parte dei preziosi “cloni” delle “varietà” di vite coltivate (es. Sangiovese, Chardonnay, Pinot noir, ecc.) sono normalmente propagati per via vegetativa e non per via sessuale. Se io incrocio due cloni identici di vite e li faccio riprodurre, ogni seme rappresenterà una varietà completamente diversa dai genitori (per il fenomeno della segregazione dei caratteri). Inoltre, visto che la vite si coltiva per fare vino, anche delle minuscole differenze a livello di genoma daranno dei risultati completamente diversi nei vini prodotti. Basti pensare alla famiglia dei Pinot: Pinot noir, Pinot grigio, Pinot bianco, che tutti noi sappiamo dare dei vini molto diversi tra loro, sono in realtà praticamente indistinguibili dal punto di vista del genoma. Secondo il ricercatore svizzero José Vouillamoz (specialista dell'analisi del DNA della vite e autore di Grape Varieties insieme a Jancis Robinson) si tratta praticamente di una sola varietà, e non di tre varietà diverse. Piccolissime mutazioni generatesi nei secoli hanno dato luogo a risultati completamente diversi a livello di prodotto finale.
Un ulteriore difficoltà è rappresentata dal grado di eterozigosi (la diversità delle coppie di geni per lo stesso carattere ereditate dai genitori) elevato della vite, che rende ulteriormente difficile operare dei reincroci, una delle tecniche piu' utilizzate nel miglioramento genetico tradizionale. Le biotecnologie sarebbero quindi una delle strade di elezione per questa specie, per introdurre le resistenze alle malattie fungine che sappiamo esistere e che sono ormai ben caratterizzate a livello genetico.
Se si vuole introdurre uno o più geni di resistenza all'interno di una pianta, e questi geni provengono da una specie diversa (o persino da un genere o un regno diverso), si fa quella che si chiama transgenesi. Qui siamo completamente in zona “OGM”, ed è quello il baluardo del Piave di quasi tutti i politici italiani ed europei, compreso il ministro Martina. Un confine invalicabile dunque allo stato attuale per i ricercatori, e anche per il pubblico che in grande maggioranza si dichiara contrario.
La cosa interessante nella vite è che questi geni di resistenza esistono di già nel genere vitis, proprio perchè le viti non europee hanno nel corso dei millenni sviluppato le proprie difese naturali. Non occorre quindi andare a prendere dei geni da altre parti, sono già presenti nel “pool genico” della vite. La tecnica biotecnologica per inserirli è la stessa della transgenesi, ma il concetto è totalmente diverso: non inserisco nuovo materiale genetico che non sia già presente tra piante che si possono tra loro incrociare liberamente. E questa è la Cisgenesi.
Ancora più sottile e promettente il Genome Editing (sopratutto nella cura delle malattie genetiche umane). Qui si tratta di non inserire nulla che non sia già presente nel genoma stesso dell'organismo, ma di intervenire a livello dell'alfabeto caratterizzante il DNA per cambiarlo, potenzialmente anche a livello della singola lettera, per produrre quella piccola ma cruciale mutazione in grado di fornire la resistenza. Al momento attuale sia la Cisgenesi che il Genome Editing vengono considerati OGM. La battaglia della comunità scientifica, che recentemente ha ricevuto due endorsments importanti (Gaja e Martina) è quella di derubricare queste tecnologie a non OGM, in modo da poterle sdoganare e rendere possibile un lavoro di miglioramento genetico che la vite attende ormai da 100 anni.
Certamente, è possibile produrre degli ibridi, e l'Istituto di Genomica Applicata di Udine (IG) ne ha prodotti 10 (5 rossi e 5 bianchi), ma proprio per il suo carattere di ibridi complessi, contenenti genoma di vite non europea sono omologati, per ora e pure con una certa fatica, per la produzione di vini da tavola ed IGT. L'Italia era, e nonostante gli ostacoli introdotti da una campagna di terrorismo psicologico durata venti anni, è ancora all'avanguardia nelle biotecnologie, e proprio con la ricerca pubblica, non le “odiose” multinazionali.
Proprio perchè pubblica, la ricerca può essere indirizzata alla conservazione della biodiversità, e non solo la creazione di poche varietà coltivabili resistenti per lo sfruttamento commerciale. Oltre ad esse, potrebbero e dovrebbero essere messi in atto degli incentivi (leggi accesso ai finanziamenti) per la salvaguardia di quelle varietà antiche, autoctone, o comunque di una importanza sociale, storica e economica che potrebbero essere “erose”, con voce in capitolo da parte della comunità dei produttori.
Insomma, preferite un Fleurtai - uno degli ibridi prodotti dall'IGA in oltre 10 anni di incroci con Tocai friuliano - o un Tocai (o un altra delle 1500 varietà coltivate) al 99,9999% uguale identico all'originale, in meno tempo, e resistente alla malattie senza l'uso dei pesticidi?