La lunga guerra dell'olio di palma
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La diffidenza nei confronti di questo prodotto, additato come causa di deforestazione e malattie cardiovascolari, risale agli anni Novanta e non è ancora arrivata alla conclusione
di Maurizio Stefanini | 02 Giugno 2016 Foglio
Ci sono le Wars of Oil, le guerre del petrolio, oggetto di tante polemiche. Ma ci sono anche le guerre dell’olio: proprio nel senso di quello alimentare. Una, ad esempio, ci fu in Italia nel 1974, quando la ditta Chiari&Forti, che aveva imposto al consumo nazionale l’olio di semi “Topazio” attraverso una fortunata campagna su Carosello, fu colpito dall’accusa che l’olio di colza facesse male al cuore. Lo stesso amministratore delegato Enrico Chiari fu condannato a sette anni, salvo essere poi completamente scagionato. Non solo la colza fu poi riabilitata, ma negli anni ’90 Dario Fo e Franca Rame fecero campagna contro il petrolio propagandando il motore a colza, affermando addirittura di quell’olio “che se vuoi lo puoi togliere dal serbatoio e friggerci le patatine”. È anche vero che dagli anni ’70 in poi sono state sviluppate nuove varietà che riducono al minimo il potenzialmente pericoloso acido erucico.
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Dodici anni dopo, si scatenò invece negli Stati Uniti una campagna contro l’olio di palma proveniente dal Sud-Est asiatico. La crociata fu apertamente condotta dall’Associazione americana dei semi di soia (American Soybean Association, Asa), che firmò una petizione all’U.S. Food and Drug per chiedere di introdurre etichette “no tropical oil” o “no palm oil”, sull’assunto che l’olio di palma oltre a “non essere americano” provocasse obesità e malattie cardiovascolari. L’associazione malaysiana dei produttori di olio di palma rispose con studi che difendevano la salubrità del prodotto, ma nel 1987 il rappresentante del Kansas Dan Glickman e il senatore dello Iowa Tom Arkins, notoriamente legati alle lobby agricole, presentarono la proposta di legge per l’etichettatura, mentre l’Asa distribuiva ai suoi aderenti il kit di propaganda “Fat fighter kit”, secondo cui “gli oli tropicali come cocco e palma possono ucciderti perché contengono grassi saturi più del lardo”. “Cerca cibo confezionato con olio di soia perché è a basso contenuto di grassi, è il cibo americano leggero per eccellenza” e “l’olio vegetale del Sud-Est asiatico sta derubando il nostro mercato” erano altri slogan, su vignette “occhio all’olio di cocco” in cui la noce di cocco appariva disegnata come una bomba a orologeria. La Malaysia rispose commissionando nuovi studi, facendo suoi contro-spot e minacciando rappresaglie diplomatiche. L’Amministrazione Reagan si chiamò fuori, il governo filippino, a sua volta, fece presente che un quarto dei suoi cittadini dipendeva dall’industria dell’olio di cocco, mentre i danesi della United International Enterprises Ltd mandarono una lettera aperta ai produttori alimentari in cui si accusavano i produttori di soia di volersi accaparrare il 50 per cento del mercato degli oli. Nel 1989 fu infine raggiunto una sorta di armistizio.
Ma una terza guerra si è annunciata un anno fa, quando in Francia Ségolène Royal, ex-moglie del presidente François Hollande, madre dei suoi figli e potente ministro dell’Ecologia, durante la presentazione della conferenza internazionale sul clima COP21 in tv, ha affermato che bisogna smettere di mangiare la nutella. Impagabile l’implorante e spontanea risposta del conduttore Yann Barthes: “Ma è buona la Nutella”. Ségolène ha ribattutto: “Non bisogna mangiarla, perché si tratta di olio di palma, che ha sostituito gli alberi. E dunque ci sono stati dei danni considerevoli”. Barthes: “Rischia di fare crollare tutta un'azienda, se dice ‘non bisogna mangiare la Nutella’”. Ségolène: “E allora devono utilizzare delle altre materie prime!”. A parte la levata di scudi di media e politici italiani indignati e il gesto di Renzi che mandò moglie e figlia a mangiare pane e nutella davanti alle telecamere, in campo scesero nientemeno che Greenpeace e Wwf, assicurando che “Ferrero, il produttore della Nutella, è uno dei gruppi più all’avanguardia in termini di sostenibilità per quanto riguarda l’approvvigionamento di olio di palma”, e costringendo Ségolène a scuse clamorose. Salva Nutella, la guerra all’olio di palma però continua. Secondo una voce corrente, questa volta i mandanti sarebbero i produttori di colza francesi: passati dal ruolo di vittime dell’isteria di 42 anni fa all’inopinato ruolo di istigatori. Proprio all’Assemblea Nazionale di Parigi, in effetti, nel 2012 era stata presentata una proposta di legge per gravare l’olio di palma con un’imposta del 300 per cento.
Il Malaysian Palm Oil Council sta di nuovo rispondendo con una campagna sarcastica: “L’olio di palma è responsabile dell’estinzione dei dinosauri”. “La sera in cui il Titanic è affondato, c’era dell’olio di palma a bordo”. “In realtà, Pompei è stata un’eruzione di olio di palma andato a male”. Dopo un’altra campagna pro-olio di palma dell’Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane, adesso nel conflitto è invece intervenuto contro l’olio di palma il Movimento Cinque Stelle, con un convegno e una proposta di legge.
Di molti di questi retroscena ha parlato diffusamente “L'olio giusto: Perché è scoppiata la guerra dell'olio” (Giunti, 144 pp., 8,50 euro): un libro uscito nel maggio del 2015 in vista dell’Expo, a firma di Rita Fatiguso, corrispondente del Sole 24 ore in Cina, e di José Galvez, economista ecuadoriano con master alla Bocconi. Dichiaratamente, si tratta di un libro schierato per olio di palma. Però porta molti dati. Uno è che “l’olio di oliva e l’olio di palma sono unici anche nell’aspetto” perché “sono prodotti attraverso processi semplici di sola spremitura, e questo spiega perché, a tutte le latitudini, sono i due oli storicamente più comuni in ogni cultura e in ogni tradizione. Tutti gli altri oli o grassi richiedono processi produttivi più complessi che comunque prevedono sempre l’utilizzo, più o meno importante, di reazioni chimiche”. Ovvio che l’olio di oliva è più sano: ma si può produrre solo in una nicchia ecologica di tipo mediterraneo che non copre più del 2,3 per cento della produzione mondiale. Per riservarlo a insalata e bruschetta bisogna dunque che nei prodotti industriali si usi qualcos’altro, e dal punto di vista meramente economico l’olio di palma è quello che richiede meno dispendio di terreno. Per coprire il crescente fabbisogno mondiale di olio ci vogliono infatti 8,2 milioni di ettari di palma usando i metodi attuali, che potrebbero essere ridotti a 5 milioni usando sistemi più efficienti. Per coprire lo stesso fabbisogno con olio di soia ci vorrebbero invece 62,5 milioni di ettari, e con olio di colza 43,3 milioni. Per questo, a parità di controlli e certificazioni, anche Greenpeace sostiene che per deforestare di meno sarebbe meglio investire nella palma.
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