"Non mi pento di avere dopato i miei atleti"
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Perché "è in atto un crucifige immotivato, una caccia all’uomo pericolosa" che appiattisce e banalizza qualsiasi riflessione che viene fatta sullo sport e il ricorso a sostanze non lecite. Parla un medico sportivo che per trent'anni ha lavorato tra calcio, nuoto e ciclismo
di Giovanni Battistuzzi | 13 Agosto 2015 ore 14:00 Foglio
Ciclismo, ma non solo, anche atletica e nuoto. L’estate sportiva si è aperta con il Tour di Chris Froome, le mezze accuse dopo l’impresa di La Pierre-Saint-Marten e la diffusione dei dati della scalata al Ventoux del 2013; poi c’è stata l’inchesta di Sunday Times e Adr sulle “medaglie truccate” nell’atletica; infine il mistero Sung Yang, il nuotatore cinese che non si è presentato alla finale dei 1.500 stile libero. Dubbi e disincanto, sospetti e accuse, giornali e televisioni ritirano fuori la parolina magica che spaventa l’opinione pubblica, che schifa gli sportivi da divano, il doping, ossessione dello sport moderno, perché lo sport pulito deve essere garantito, nemmeno fosse un diritto universale, dicono. “Credo sia in atto un crucifige immotivato, una caccia all’uomo pericolosa che parte da un’indignazione generalizzata dettata più da una tendenza ‘maniaco-manettara’ che da una riflessione approfondita su cosa sono sport e doping”. A parlare è uno che lo sport lo conosce da anni, che per oltre un trentennio con gli sportivi ci ha lavorato, medico sportivo prima nel nuoto, poi nel calcio, infine nel ciclismo. “Che dire, sono preoccupato e non per la situazione dello sport in generale, ma per la faciloneria a esprimere sentenze da parte di chi invece dovrebbe farsi prima di tutto domande e che dovrebbe sapere che parlare di sport pulito è da sempre una cavolata, una fiaba da raccontare ai bambini”.
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Sport e medicina si sono sempre inseguiti, sono andati avanti a braccetto almeno da quando questo è diventato di massa, le competizioni sono diventati eventi mondiali e ha richiamato sponsorizzazioni, attenzione mediatica e soldi. Sport e medicina sono mondi vicini perché nello sport il fisico umano si avvicina al limite umano di sforzo ed efficienza e proprio per questo motivo deve essere controllato, monitorato, studiato. E aiutato. “Dire è tutta una truffa, è tutta una montatura, sono tutti dopati vuol dire non capire cos’è lo sport, è un ipersemplificazione di un problema esistente, quello del doping, ma che viene affrontato in maniera sciocca”. Il ricorso a sostanze proibite per migliorare le prestazioni fisiche è pratica ancora diffusa, “ma così è sempre stato, dalle soluzioni di cocaina degli anni Dieci, passando per le bombe di simpamina (anfetamina) e caffeina, lo sport si è sempre accompagnato con i ritrovati della ricerca medico-scientifica. Se fosse vero che è tutta una montatura dovrebbero essere accusati di truffa pure i campioni del passato e passerebbe la tesi che a vincere non è mai stato il più forte, ma quello che ha avuto il carburante migliore, e ciò è falso”.
A cambiare dovrebbe essere il paradigma con il quale si affronta questa tematica. In un’epoca di fruizione domestica dello sport, di grande attenzione mediatica che comporta ingenti interessi economici attorno a questo mondo, con televisioni e sponsor disposti a investire grosse cifre per sfruttare la popolarità delle varie discipline, pensare che gli atleti vadano avanti a pane e acqua è utopia. “Lo sport ha progressivamente perso la sua dimensione di attività fisica e si è trasformato in uno spettacolo. E’ un prodotto da assimilare all’arte, al cinema o alla musica e quindi continuare a ragionare di etica sportiva senza capire questo passaggio non solo è fuorviante, è insensato”. Se nessuno si scandalizza se un artista assume sostanze proibite per dipingere o suonare, perché si dovrebbe scandalizzare per un atleta che ricorre a sostanze proibite per migliorarsi e creare spettacolo? “Mi rendo conto che è una estremizzazione del problema, ma la questione andrebbe affrontata e un ripensamento etico sul problema andrebbe fatto. Non si può continuare nell’inquisizione sportiva senza riflettere approfonditamente sulla faccenda”.
La lotta al doping soprattutto nel ciclismo ha dato risultati sicuramente apprezzabili, ha in gran parte eliminato il ricorso a quelle sostanze come Epo e Cera “capaci di trasformare un ronzino in un purosangue” e (ri)umanizzato medie di gara e gesta atletiche, ma ha allo stesso tempo “creato una fobia generalizzata, un’ossessiva ricerca del colpevole”. La Wada (World AntiDoping Agency) ha introdotto pratiche meritorie come il passaporto biologico, ossia la schedatura progressiva di tutti i risultati dei test ematici, e analisi sempre più precise e dettagliate, ha combattuto l’abuso di prodotti proibiti, ma non è riuscita a produrre una discussione approfondita sulla questione. “In questi anni ci si è limitati a proibire e squalificare, ma non si è andati oltre. E’ stato un lavoro di aggiunta, incrementare la lista di divieti senza affrontare davvero la tematica doping”. Siamo giunti a un proibizionismo generalizzato, ma vuoto di significato. “Il problema è profondo, di concetto. Cosa intendiamo per doping? Qualunque sostanza che migliora sensibilmente le prestazioni fisiche? Se è questo perché nel listone dei divieti ci sono cocaina e alcuni diuretici che non danno benefici? Oppure è un problema di tutela della salute degli atleti? Allora è assurdo che siano vietate l’autoemotrasfusione, cioè il reintegro del proprio sangue ossigenato tolto dopo permanenza in altura che non crea problemi al fisico oppure l’utilizzo di camere d’ossigeno per dormire”. Il listone dovrebbe essere ridiscusso, andrebbe fatta chiarezza su quello che significa davvero questa parola. “Come medico mi sono sempre rifiutato di ricorrere all’Epo, anche se so per certo che molti dei miei atleti lo utilizzavano comunque, ma ho sempre avallato il ricorso al cosiddetto doping ematico autogeno, pratica che permette di aumentare le prestazioni di un 6/8 per cento senza avere particolari controindicazioni e soprattutto senza causare gli scompensi tipici di una prolungata permanenza ad alta quota. Il mio comportamento era illegale, ma la salute dei miei atleti era garantita. Non so se eticamente ho sbagliato o fatto bene, ma non mi rimprovero nulla”.
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