Calcio, tifo e razzismo
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non è vero che le frasi rivolte a quel giocatore slavo siano insulti di stampo razzista, semplicemente perché anche nella squadra che lui allena giocano almeno due-tre altri giocatori della stessa origine “etnica
9 Maggio 2023 - di Paolo Natale fondazionehume.it
Finalmente, alla fine, anche nello sport si è aperto uno spiraglio, un timido tentativo di fare un pochino di chiarezza su se e quanto si possano definire “manifestazioni di razzismo” i cori che ormai quotidianamente si sentono negli stadi (italiani e non). Ad aprire il dibattito, con qualche interessante dichiarazione e alcune considerazioni di base, sulle quali riflettere almeno un istante, è stato l’allenatore dell’Atalanta, GianPiero Gasperini.
Breve riassunto degli accadimenti di domenica scorsa, per chi non segue da vicino lo sport giocato né quello chiacchierato. Va in scena a Bergamo la partita di campionato Atalanta-Juventus. Nel corso dello svolgimento, un gruppo significativo di ultras bergamaschi non smette di rivolgere all’attaccante slavo della squadra avversaria, Vlahovic, coretti ed epiteti spregiativi, tipo “sei uno zingaro”, se non anche peggiori. Un po’ ciò che era accaduto a Torino un paio di settimane prima, tra alcuni ultras della stessa Juve e l’attaccante nero dell’Inter Lukaku, apostrofato con il consueto “negro di merda” o giù di lì. In modo non dissimile anche in questo caso a ciò che avviene in tutti gli stadi di calcio, da anni a questa parte, più o meno nessuno escluso.
Breve parentesi, ma molto importante per il discorso che farò tra poco. Una volta, qualche decennio fa, questo era un “rituale” comune anche negli altri sport, in particolare quelli di squadra, ma molto meno quelli individuali (ve l’immaginate uno spettatore di boxe che avesse apostrofato a bordo ring Cassius Clay / Mohamed Alì con un epiteto del genere? Avrebbe fatto sicuramente una brutta fine…).
Anche nel basket, ad esempio, giravano coretti simili, del tipo “non ci sono negri italiani”, rivolto a Carlton Myers, figlio di un inglese nero e di una riminese, divenuto nel tempo una colonna della nazionale italiana, tipo Balotelli. Negli ultimi anni ingiurie di questo tipo sono praticamente scomparse da tutti i palazzetti di basket, per la semplice ragione che i migliori giocatori di pallacanestro sono spesso neri e tutte le squadre ne hanno nel loro roster almeno tre o quattro, e insultarne qualcuno a caso non avrebbe alla fine un apprezzabile risultato, né si saprebbe esattamente chi ne sarebbe il destinatario, dei cinque o sei che sono in campo o in panchina.
Dunque, nel basket, al contrario di un passato più antico, di squalifiche o di multe per “cori razzisti” oggi non se ne verificano praticamente mai. Significa forse che tra gli ultras della pallacanestro non c’è alcun esagitato tifoso, simile ad il suo omologo calcistico? Direi proprio di no. Forse meno diffuso, grazie al livello meno popolare degli spettatori di basket. Forse, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Chiusa parentesi.
Ma torniamo ad Atalanta-Juve e alle dichiarazioni di Gasperini che, a fine partita, ha espresso un concetto semplice: non è vero che le frasi rivolte a quel giocatore slavo siano insulti di stampo razzista, semplicemente perché anche nella squadra che lui allena giocano almeno due-tre altri giocatori della stessa origine “etnica”, quella di Ibrahimovic per intenderci, che ha subito anch’egli nella sua lunga carriera epiteti molto simili. Ora, conclude Gasperini, se gli ultras fossero davvero razzisti (contro gli slavi), non potrebbero accettare nemmeno che nella propria squadra giochino almeno due-tre “zingari di merda”, e li insulterebbero a ogni piè sospinto, sebbene difendano i propri colori sociali. Come ben ci insegna la storia Usa, non si può essere razzisti ad intermittenza, o lo si è o non lo si è. E a volte, addirittura quando non si pensa di esserlo, il proprio rapporto con persone di colore non è semplice (vedi il caso del film anni Sessanta “Indovina chi viene a cena”). Punto.
Quegli insulti, sempre secondo Gasperini (che ovviamente è stato attaccato da tutti, proprio tutti tutti) non sarebbero razzisti, ma semplicemente “maleducati”, o beceri, perché seguono il diffuso sentiment di provocare l’avversario per infastidirlo, per fargli commettere errori che normalmente non farebbe. Non è bello, s’intende, ma non è nemmeno sintomo di razzismo, perché il razzismo, quello vero, è tutt’altra cosa, molto più grave, ma anche molto più specificamente diretta al colore della pelle, alla etnia, alla religione. Ora, argomenta l’allenatore dell’Atalanta (e io con lui), se ce l’ho con gli “sporchi negri” dell’altra squadra, perché quelli che giocano nella mia squadra sono al contrario “giganti d’ebano”, “principi neri”, eccetera. Balotelli, quando era dell’Inter, veniva insultato costantemente dai tifosi milanisti, quando passò al Milan subiva lo stesso trattamento da quelli interisti. Razzismo?
Ricordo ancora una ricerca universitaria degli anni Novanta, un’indagine sul campo promossa da Alessandro Dal Lago, in cui si cercava di studiare da vicino atteggiamenti e comportamenti degli ultras del Milan. Ne uscì un importante libro dal titolo “Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio”. Utilizzammo per l’analisi dei tifosi e del loro livello di razzismo una procedura statistica chiamata “Scala di Likert”, composta da 10 frasi cui l’intervistato doveva dichiarare il proprio grado di accordo. La sommatoria di tutte le risposte avrebbe fornito appunto un indicatore complessivo del livello di razzismo degli ultras. A patto che tutte le frasi indicassero una delle facce del tema del razzismo.
Orbene, 9 frasi su 10 funzionavano piuttosto bene ed erano tra loro ben correlate. L’unica che al contrario non mostrava significativi livelli di collegamento con le altre era proprio quella che riguardava gli insulti ai giocatori avversari per il colore della loro pelle. Quella frase era correlata più con il tifo maleducato, gli insulti (“figlio di p…”, “testa di c…”) che con il razzismo. Già oltre 30 anni fa, dunque, le parole che oggi ha pronunciato l’allenatore dell’Atalanta erano state comprovate da un’analisi scientifica. Meglio tardi che mai