Cento sfumature di Fausto Coppi
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L’Airone non è stato solo un campione, è un’opera d’arte cubista che raccoglie in sé un’infinità di immagini diverse. Bruseghin, Pastonesi, Trentin (e altri) raccontano la loro
di Giovanni Battistuzzi 15.9. 2019 ilfoglio.it
Un profilo che sembra una montagna: salita dura quando è disteso, picchiata vorticosa quando è all’impiedi. Un profilo che è un naso prima di tutto, una punta che anticipa un volto, che scandaglia l’aria, che la trafigge come un avviso, una missione. Un naso antico e contadino, quasi fosse un aratro utile anch’esso per lavorare i campi.
Un profilo comune, divenuto unico. E il tutto alla faccia di quello che stava attorno a lui: un mondo orale fatto di racconti, miti e leggende, storie tattili. Storie di campi e di fabbriche, oppure di bici reali e bici sognate, le prime quelle dure e pesanti che conducevano al lavoro e le seconde quelle luccicanti e col manubrio curvo che trasformavano i corridori in cavalieri.
Una trasformazione, come quella che ha mutato un profilo in un’icona, nonostante non ci fossero scatole magiche a trasmettere immagini. Non c’era movimento in quel profilo, in quello di Fausto Coppi, perché quel profilo era essenzialmente fotografia. Una delle due che venivano appese un po’ ovunque, quando non era una sola, quella della bottiglia che passava da una mano all’altra, da quella di Bartali a quella del Fausto, o viceversa.
Dire chi la riceveva e chi la concedeva era una questione di fede. Il movimento era dato dalle parole, quelle delle imprese narrate sui giornali o alla radio, quelle poi riproposte nei bar e nelle osterie, quelle esagerate, spesso discusse, a volte litigate, mai ignorate. Parole che hanno superato gli anni, che sono iniziate un giorno di cent’anni fa anzi, esattamente cent’anni fa: il 15 settembre 1919, il giorno del Campionissimo, di Fausto Coppi da Castellania.
Illustrazione di Enrico Cicchetti (tutti i diritti riservati)
Cent’anni sono un tempo buono per sfocare i contorni e ingrigire la memoria. Cent’anni sono un tempo sufficiente a dimenticare o a moltiplicare il ricordo, trasformarlo in altro, forse in mito, senz’altro in epopea, a volte in leggenda.
In cent’anni quel profilo non è più solo un profilo. Il tratto ha perso in nitidezza come se mille sagome si fossero sovrapposte. Non è più solo, sono diventati tanti. Tante copie di una stessa fotografia che quasi non si capisce più quale sia l’originale. E il bello è che risalire all’originale non conta, soprattutto non importa a nessuno. Perché Fausto Coppi ormai non esiste più. O meglio non esiste più un solo Fausto Coppi, ce ne sono tanti, tantissimi, innumerevoli. E ognuno di questi non meno vero degli altri. Fausto da Castellania si è trasformato in quei cento o mille o più Coppi che affollano memorie e pensieri.
Perché Fausto Coppi non è solo un uomo, non è solo un ciclista o un campione, è soprattutto un “simbolo, un corridore che ha mosso tutta l’Italia in un momento storico dove la bicicletta era il mezzo principe per gli spostamenti. Ed è stato il primo a introdurre – o far introdurre ai giornalisti se vogliamo – un certo senso di bellezza del gesto atletico con la sua pedalata sempre composta e piena di stile”, dice al Foglio Matteo Trentin, campione europeo di ciclismo su strada nel 2018.
È un giorno, un luogo, un’immagine. Almeno per chi l’ha visto. “C’erano parecchi corridori nel gruppo, eppure ricordo che la prima cosa che vidi fu la sua sagoma: quel naso che sporgeva, la curva perfetta che dalla nuca raggiungeva il sellino, quelle gambe così lunghe da sembrare chilometriche. Capii in quel momento che Coppi non era solo un corridore, era di più”, racconta al Foglio Nino Assuer, muovendo le sue mani grandi, ancora macchiate da cinquant’anni di grasso di catena. Meccanico, o meglio “un pianista del cambio”, almeno per il campione svizzero degli anni Cinquanta, Ferdi Kübler. Assuer a sistemare e a mettere a punto biciclette ci è finito a causa di Coppi. “Perché quando vidi per la prima volta l’Airone mi innamorai del ciclismo. Solo qualche ora dopo anche della bici. Coppi lo vidi pedalare ed era meraviglioso. Poi lo osservai sul podio, senza la bici: un uomo come tanti, anzi quasi goffo. In quel momento capii che la bicicletta era un miracolo. Avevo sei anni ed era la prima volta che uscivo da Cunardo, quattro case tra il Lago Maggiore e quello di Como. Mio padre mi svegliò all’alba e mi fece: ‘Muoviti, andiamo’. Io con gli occhi mezzi chiusi gli chiesi dove e lui stupito della mia domanda rispose ‘in Isvizzera’ come fosse la cosa più naturale del mondo. Capii dopo che c’era Coppi ad attenderci. Perché mio padre era uno tirato coi soldi, ma per il Campionissimo era disposto a fare qualunque cosa. Ci mettemmo sulla Crespera – la salita del circuito iridato – e quando l’Airone passò nel gruppo fu un boato. Quando passò solo con Derijcke fu una libidine. Quando passò solo e basta fu una cosa che non ci si crede: un terremoto di almeno 4 di magnitudo”.
Coppi diventa una storia, un collage di parole, di gesti, di volti. Almeno per chi di lui ha raccontato a distanza, per interposta persona. “L’immagine che ho di Coppi è quella riflessa, specchiata, tramandata dei gregari”, dice al Foglio Marco Pastonesi che all’Airone ha dedicato il suo ultimo libro, Coppi ultimo (66thand2nd, 208 pp. 17 euro). “È la erre arrotata e rotante e romantica di Ettore Milano; è il naso allegro da italiano in gita di Sandrino Carrea; è la bontà e la generosità di Michele Gismondi. È l’atto di fede, la dichiarazione d’amore, lo spirito di gruppo, forse il culto, ma certamente il rispetto e la gratitudine di tutti gli altri. Dal primo gregario, che fu Bartali al Giro d’Italia del 1940, fino a quelli del 1959, quelli autentici, ma anche quelli del 1960, quelli che avrebbero dovuto fargli da gregari ma che non ce l’hanno fatta, loro sono gli orfani di Fausto Coppi”. I primi orfani di generazioni di orfani. “Ancora oggi lo siamo. Perché Coppi è stato il meglio del ciclismo nella fatica e nella letteratura, nel martirio e nella poesia, nelle fughe sulla strada e nelle fughe nostre di tutti i giorni”.
L’Airone salutò il mondo il 2 gennaio 1960, quasi sessant’anni fa. Salutò tutti in modo inatteso, senza dare a nessuno nemmeno la possibilità di abituarsi alla sua assenza. E da allora la sua assenza non ha mai smesso di palesarsi. L’hanno provata a riempire cercando un nuovo Coppi, tanto che di “coppini” se ne sono susseguiti continuamente sino agli anni Novanta. E poi con libri, racconti, romanzi, fiction, film per la tv. È rimasta nelle storie tra appassionati, nei ricordi di chi l’ha visto correre e nei paragoni di chi non l’ha visto correre, ma è come se l’avesse vissuto ugualmente. Perché Coppi è aeriforme, si sparge ovunque.
Dalle cime dolomitiche alla costa ligure. “Quando passava il Fausto sembrava di vedere passare il presidente della Repubblica”, ricorda Danilo Ecchino, cuoco per una vita tra la sua Liguria, New York e Venezia, vinicoltore per hobby ora che i novanta sono alle porte. “Quando attraversava Diano Marina la gente si fermava, interrompeva quello che stava facendo e applaudiva. E Coppi per Diano Marina passava quasi due volte al giorno tra tardo inverno e primavera, quando in Riviera si allenava per preparare la stagione. Ho ancora una foto con il suo autografo. Un collezionista mi ha chiesto di vendergliela, mi aveva promesso un sacco di soldi. Ma io gli ho fatto il gesto dell’ombrello: belin, le emozioni non si vendono”.
Una foto: Coppi sorridente con al fianco un uomo con i capelli tirati indietro con la brillantina davanti al mare ligure. “Mio padre, Coppi, e quello lì, quello sullo sfondo sono io. Da piccolo ero grasso, poi a lavorare in cucina mi sono asciugato: un cuoco non è diverso dal brodo”.
Una foto. Perché è l’immagine che richiama i ricordi e i ricordi hanno un colore. “Celeste. Celeste Bianchi. Quello è il colore di Coppi. Lo dovrebbero chiamare celeste Coppi. Dentro quella tinta era riflessa un’intera nazione. E chi dice che era mezza, perché l’altra era quella di Bartali dice una baggianata: potevi pure essere coppiano o bartaliano, ma poi applaudivi sia l’uno che l’altro perché non potevi non renderti conto di avere davanti due fenomeni pazzeschi”.
Una foto. Perché le storie sono tante, le vittorie tantissime (118 su strada, 84 nell’inseguimento su pista, cinque volte il Giro d’Italia, due volte il Tour de France e sempre dopo aver vinto il Giro, primo corridore della storia a riuscire nella doppietta Giro-Tour e poi tre Milano-Sanremo, cinque volte il Giro di Lombardia, una Parigi-Roubaix, una Freccia Vallone, un Mondiale), la classe immensa e l’evidenza di tutto questo è ritratta in una foto: “Coppi in piedi sui pedali mentre scala l’Izoard. C’è tutto in quell’immagine, l’imponenza della cassa toracica, i muscoli della gamba tesi, l’eleganza del pedalare”, suggerisce al Foglio Marzio Bruseghin, ex corridore professionista dal 1997 al 2012. Un palmarès di migliaia di chilometri in testa al gruppo a tirare, di centinaia di vittorie concesse ai capitani e due successi al Giro d’Italia e un podio conquistato nel 2008 (terzo). “Lì Fausto Coppi era più di Fausto Coppi, sembrava una locomotiva, il motore della bici. Era la rappresentazione della potenza”.
Coppi supera le epoche, unisce punti diversi, sia geografici che esistenziali. Un po’ perché “il ciclismo è uno sport che, nel bene o nel male, ha uno stretto rapporto con il passato, vuoi anche perché si presta, almeno televisivamente, al ricordo, a parlare e a rivedere ciò che è avvenuto negli anni, vuoi perché ritorna sempre, prima o poi, nei luoghi che hanno fatto la sua storia”. Un po’ perché quando si percorrono quelle strade, si guardano gli stessi scenari che sono stati attraversati dai campioni di un tempo, la nostra testa tende ad avvicinare racconti mitici a imprese odierne. “È un po’ questa la magia della bici, ti porta all’interno di un racconto epico. Entrare in un grande stadio, giocare al Maracanã o a San Siro se si è appassionati di calcio, oppure ballare alla Scala o suonare all’Arena sono cose difficili da raggiungere, quasi impossibili per chiunque, invece pedalare sulle grandi salite è qualcosa alla portata di tutti, basta la voglia. E lì ti confronti con la fatica e con la storia. Con la grandezza dei monti e quella dei campioni, e il più grande di tutti è stato Coppi”, sottolinea Bruseghin.
Scrisse Giorgio Bocca che Coppi non era solo un campione, “era soprattutto un romanzo italiano”. Un romanzo che continua, che ormai è diventato una rappresentazione cubista. Esiste un Fausto, esistono cento Coppi. Ognuno in parte diverso, ognuno in fondo uguale a un profilo diventato effige, diventato storia.